Lo afferma il Financial Times, mentre le agenzie interessate non rilasciano per ora dichiarazioni. Pochi giorni dopo l'incriminazione e richiesta di estradizione da parte di Washington per cinque militari cinesi accusati di hacking verso aziende statunitensi arrivano le prime conseguenze
La Cina starebbe per recidere i rapporti tra le proprie imprese di Stato e le società di consulenza Usa, pochi giorni dopo l’incriminazione e richiesta di estradizione da parte di Washington per cinque militari cinesi accusati di hacking verso aziende statunitensi. Lo afferma il Financial Times, mentre le agenzie interessate non rilasciano per ora dichiarazioni.
L’azione cinese riguarderebbe imprese del calibro di McKinsey e Boston Consulting Group e sarebbe giustificata dall’accusa di fornire segreti commerciali al governo degli Stati Uniti, riferisce il FT, citando fonti anonime vicine ad alti dirigenti cinesi.
Il giornale della City parla di una escalation nella reazione di Pechino, dopo che all’inizio i media cinesi avevano ricordato che l’affare Snowden dimostrasse se mai che sono gli Usa a spiare mezzo mondo: “In questo momento gli stranieri utilizzano le loro società di consulenza per scoprire tutto ciò che vogliono sulle nostre aziende statali”, avrebbe detto la fonte anonima citata dal “Times”. L’eventuale rappresaglia sarebbe inserita in un più generale controllo a tappeto di tutte le attività informatiche straniere che rappresentano un pericolo per la sicurezza nazionale. Windows 8, l’ultimo sistema operativo di Microsoft, è già stato vietato la settimana scorsa per lo stesso motivo.
Player globali come McKinsey, Boston Consulting Group, Bain & Company e Strategy& puntano sulla Cina come mercato in veloce espansione e offrono da tempo consulenza alle grandi imprese di Stato cinesi. Lavorano anche con i privati e per ora non si ha notizia che l’eventuale bando riguarderebbe anche questo settore. La scorsa settimana, una corte Usa aveva incriminato cinque alti funzionari dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese per cyberspionaggio economico ai danni di diverse imprese attive nei settori del nucleare, del solare e del siderurgico. Le accuse risalgono allo scorso anno, quando un rapporto della società statunitense di intelligence Mandiant aveva individuato nell’unità 61398 dell’Esercito Popolare di Liberazione – che avrebbe sede in un oscuro palazzo di Shanghai – l’origine di molteplici tentativi di violare i sistemi informatici delle aziende Usa.
Pechino aveva reagito annunciando ritorsioni e l’esito – se confermato – ricorderebbe per certi versi l’oscuramento del sito di Bloomberg, dopo che l’agenzia d’informazione economica statunitense aveva pubblicato, nel luglio del 2012, un’inchiesta sulle ricchezze della famiglia di Xi Jinping, allora non ancora presidente e segretario del Partito comunista ma principale candidato a diventarlo. A quel tempo, si disse che sarebbe stato difficile per Pechino sbattere la porta in faccia all’impresa dalle cui labbra (leggi “terminali”) pendono gli operatori economici di tutto il pianeta: l’internazionalizzazione del business cinese ne avrebbe sofferto. Fu poi invece l’agenzia ad adottare una policy interna più ammiccante alle esigenze del potere politico cinese – cioè meno propensa a pestare scomodi piedi – ma la quarantena permane tutt’ora.
La domanda è: chi ci perde maggiormente? Difficile al momento rispondere. Se le agenzie defenestrate si vedono il business decurtato brutalmente, il sistema Cina non ci guadagnerebbe certo da una guerra commerciale, perché la grande riconversione dell’economia cinese richiede trasferimenti di tutta quella tecnologia avanzata di cui Pechino ancora non dispone. È sian una partita a scacchi, sia una guerra delle parole.
di Gabriele Battaglia