Le nuove voci di calcolo delle ricchezze nazionali arrivano proprio mentre Londra riceve il poco invidiabile titolo di “capitale europea del consumo di cocaina”
Se droga e prostituzione, inseriti nei conti dell’Italia, potrebbero salvare – o almeno aiutare – i conti del Paese, anche l’economia del Regno Unito potrebbe beneficiare della nuova contabilità imposta dall’Eurostat, l’ente europeo di statistica, che ha stabilito come ogni membro dell’Unione debba applicare questi due nuovi parametri nel calcolo delle ricchezze nazionali. Le nuove regole sono arrivate al di qua della Manica proprio mentre Londra riceve il poco invidiabile titolo di “capitale europea del consumo di cocaina”, anche se ora nei ministeri e negli uffici statistici britannici si tira un sospiro di sollievo per la quasi “normalizzazione”.
Così anche quei fiumi di polvere bianca che, dicono gli esperti, una volta assorbiti dai corpi dei londinesi finiscono nel Tamigi grazie alle fogne (così è stato calcolato il primato), verranno usati per un fine più nobile: far apparire più ricco di quanto non lo sia già il Regno Unito. Almeno sulla carta. Il mondo che cambia e un approccio più morbido a temi delicati e a fenomeni permeati di problemi e criminalità, pesano sicuramente sulla decisione. Insieme alla consapevolezza, da parte dell’Europa e del Regno Unito, che anche chi delinque contribuisce a rendere più ricco il paese.
Per prepararsi ai nuovi dati che partiranno da settembre, l’Office for national statistics ha fatto una stima del mercato della droga e della prostituzione nel 2009, anche per calcolare dall’ultimo trimestre di quest’anno l’apporto dei traffici illeciti all’economia del regno di Elisabetta. Così si scopre che cinque anni fa – secondo l’istituto – l’apporto di droga e prostituzione per il Pil britannico è stato pari a 9,7 miliardi di sterline, circa 12 miliardi di euro al cambio attuale. Di questi, 4,4 miliardi provenienti dal traffico di cocaina, ecstasy, crack, cannabis, eroina e anfetamine, mentre gli altri 5,3 miliardi direttamente dal traffico e dallo sfruttamento di esseri umani che finiscono nel giro della prostituzione. Cifre paradossali, ma l’economia è fatta di calcoli più che di morale, commenta in queste ore la stampa britannica. Il Guardian riporta che nel 2009 operavano nel Regno Unito circa 61mila prostitute, con una media di 25 clienti a settimana a donna e una spesa media, a cliente, di 68 sterline, circa 85 euro.
Nelle stime dell’ente – così come riportate dal quotidiano progressista – quei 2,2 milioni di consumatori di marijuana, nello stesso anno, hanno reso più ricco il paese con 1,2 miliardi di sterline. Un mercato illecito che, oltre a incassare guadagni, deve sostenere delle spese: per coltivare la marijuana sono stati sborsati, sempre nel 2009, ben 154 milioni di sterline in elettricità, riscaldamento e materie prime per la coltivazione. Anche l’acqua, il terreno e il concime hanno un costo, pure nel caso di un utilizzo non propriamente encomiabile, e tutto questo non è sfuggito agli statistici britannici. Questi 9,7 miliardi di sterline, nel 2009, rappresentarono lo 0,7% del Pil del Regno Unito.
Ma ora, dice l’ufficio nazionale di statistica, questo dato dovrà essere visto sicuramente al rialzo. Lo si scoprirà a settembre, appunto, e questi dati faranno sicuramente venire qualche pensierino all’Hrmc, il fisco britannico, per quei possibili ed eventuali introiti in caso di legalizzazione di droghe leggere e delle case del piacere. Stupefacenti proibiti a parte (il Regno Unito infatti non è l’Olanda e non è il Colorado), al momento nel paese è illegale per le prostitute abitare in compagnia e in una casa non può risiedere più di una lavoratrice del sesso.
Ma non preoccupiamoci, dice un economista di Scotiabank, Alan Clarke, intervistato dal Guardian: l’attività delle donne che vendono il proprio corpo già ora porta soldi alle casse dello Stato. Come? Ogni volta che prendono un taxi (e avviene molto spesso) o con tutte le telefonate che fanno, così come con l’elettricità che consumano nelle loro dimore, anche le loro attività hanno un ritorno in termini fiscali. Dalle case chiuse a un’economia sempre più aperta, quindi, almeno all’apporto di nuovi introiti e giri di affari registrabili dagli statistici.