Migliaia in Sicilia, 80 mila in Italia. Nel Meridione interi quartieri e paesi vivono grazie ai dipendenti dei centralini telefonici. Un lavoro duro: per ore chiusi in una stanza, a parlare con gente che risponde stizzita. Ora la delocalizzazione in Albania e nei paesi dell'Est mette in ginocchio imprese e famiglie. Mercoledì nella Capitale: il “No delocalizzazioni day”
Fino a due anni fa nel palazzone a vetri di sei piani in via Tommaso Marcellini 8h le luci restavano accese 24 ore al giorno. Oggi si spengono a mezzanotte e si riaccendono alle 9 di mattina. “Ci hanno detto che il nostro posto di lavoro è a rischio” dice Rosy, 39 anni, una dei tremila operatori che lavorano nel call center Almaviva Contact di Palermo, a cinque chilometri da Monreale, a quasi 300 metri sul livello del mare. L’azienda è leader in Italia nell’outsourcing di servizi con diecimila dipendenti e un fatturato di circa 200 milioni di euro. La sua forza lavoro si concentra in Sicilia, con due sedi nel capoluogo e 4 mila persone. “Ci hanno dichiarato 2300 esuberi a livello nazionale” continua Rosy, referente Rsu, che dall’inizio dell’anno è andata 4 volte a Roma per convincere il presidente Marco Tripi a trovare un’alternativa. “Crescono le perdite mensili perché ci sono aziende che fanno concorrenza sleale e molte che delocalizzano gli ordini in Albania, Romania e Tunisia” le hanno spiegato. Il risultato ottenuto è il contratto di solidarietà per il terzo anno di fila. “Lavoro 4 ore al giorno e prendo 600 euro al mese con i contributi dell’Inps”. Il centro offre servizi inboud, cioè riceve chiamate per dare assistenza ai clienti. Ieri quelli di Tim, Wind, Vodafone, Enel, Alitalia. Oggi quelli di Sky. Ma il traffico è precipitato da 70 telefonate al giorno a 30. “Tra una chiamata e l’altra può passare anche un’ora. E il cliente sa cosa mi dice? ‘Dopo quattro telefonate finalmente lei mi capisce!’”. Perché dall’altra parte della cornetta prima c’era un operatore albanese o rumeno, che prende dai 280 ai 350 euro al mese (cioè il 30 per cento in meno di un collega italiano, ma in Albania è uno stipendio decoroso), a cui un altro call center italiano ha in parte delegato la commessa dell’ente privato o pubblico che in patria impone budget sempre più striminziti. “Per un anno tiriamo il fiato – sospira Rosy – ma poi se l’azienda chiude è un casino”. La sede in via Tommaso Marcellini è una comunità in miniatura. “Qui ci sono persone sposate tra di loro, con dei figli, un mutuo, c’è la mamma e la figlia sedute nella stessa sala. Se perdiamo il lavoro, saltano in aria famiglie intere!”. L’età media dei dipendenti è 40 anni. Laureati in medicina, ingegneri, psicologi, tantissimi avvocati. Una volta mettersi le cuffie con il microfono alle orecchie era un lavoro di passaggio. Oggi per 80 mila persone, quante sono quelle impiegate nei 160 call center della Penisola, è il mestiere della vita.
Al collasso è tutto il settore dei call center, la metà radunati al Sud, con un giro di affari di 1,3 miliardi di euro. Le 10 aziende più grandi (Almaviva, Comdata, Call&Call, Transcom, Visiant, Teleperformance, Ecare, 3G, Infocontact, Gruppo Abramo) fanno il 66 per cento del fatturato. Il 4 giugno a Roma ci sarà il “No delocalizzazioni day”, una manifestazione nazionale di tutti i lavoratori per dire no alla delocalizzazione, no alle gare al ribasso e chiedere alle istituzioni una più efficace regolamentazione del comparto. Il segretario generale Fistel Cisl, Giorgio Serao è netto: “Sono a rischio 10 mila posti nei prossimi mesi”. Intanto il primo maggio sono finiti a casa i 200 dipendenti di Voice Care, che gestiva per Seat il Pronto pagine gialle 89.24.24, senza cassa integrazione perché la società è fallita. Poi l’appello urgente al Governo: “Chiediamo il rispetto dell’articolo 24 bis del decreto Sviluppo del 2012 – insiste Serao – che obbliga la società ad avvisare 120 giorni prima il ministero del Lavoro e il Garante della privacy del trasferimento dell’attività in un Paese straniero e prevede per i clienti il diritto di scegliere se essere assistiti da un operatore all’estero o in Italia”. Altro sos: “L’estensione dell’articolo 2112 del codice civile per il cambio di appalto in modo che il dipendente mantenga stessa paga e diritti”. “Nell’ultimo biennio lo Stato ha speso 480 milioni in ammortizzatori sociali – denuncia Salvo Ugliarolo della Uilcom – non si può andare avanti così”. Troppe le società che durano tre anni, il tempo per beneficiare degli sgravi fiscali previsti della legge 407/1990, chiudono e aprono altrove con personale nuovo. “Si tratta di allineare l’Italia alla direttiva comunitaria 2001/23 a tutela dei lavoratori”, sottolinea Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cigl. Un primo passo è il tavolo sui call center aperto il 28 maggio dal ministero dello Sviluppo economico. Il confronto, presieduto dal viceministro Claudio De Vincenti, ha coinvolto le associazioni Assocontact, Federutility e Asstel e i sindacati di categoria Cgil, Cisl, Uil e Ugl. L’Osservatorio nazionale è la prima proposta dell’esecutivo, condivisa da tutti.
Un caso lampante di gara al ribasso è quello del Comune di Milano, che a febbraio ha pubblicato il bando per il servizio di informazione 020202. “Hanno previsto una base d’asta di 45 centesimi al minuto, che corrisponde a 18 euro per dipendente, a fronte di un costo per l’azienda di 17,79 euro – spiega il Umberto Costamagna, presidente di Assocontact -. Abbiamo fatto ricorso all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e invitato tutti i soci a ritirarsi”. Solo tre aziende hanno presentato l’offerta. Il Comune però ha congelato il bando e sta riflettendo sul da farsi.
“Meglio prendere la commessa che perderla, no? Se non avessimo avuto i nostri addetti albanesi, non avremmo mai soddisfatto la commessa da Alitalia a prezzi sottocosto, delegando il 60 per cento dei volumi a loro, il resto agli italiani” spiega Paolo Sarzana, responsabile comunicazione di Teleperformance, che in Italia ha due sedi a Taranto, una a Fiumicino, e 3500 posti di lavoro. “Siamo una multinazionale presente in 51 Paesi” si difende Sarzana. Ma la sostanza non cambia: il dieci per cento delle commesse italiane vanno in Albania. “Lì ho un flat del 10 per cento, in Italia del 50”. Lorena, 31 anni, separata con un figlio, guadagna 500 euro al mese, fa telemarketing: “Il ritmo di lavoro è serrato, devi chiudere almeno 30 contratti al mese. Mi mandano al diavolo, poi ci fai l’abitudine. A Taranto o vai all’Ilva o al call center”.
Il gruppo Abramo, calabrese, in Albania si chiama Albacall, mille dipendenti, ma sul sito internet dell’azienda non compare. “Ci hanno assicurato che non ci tolgono il lavoro” dice Giuseppe, operatore a Catanzaro. Sua moglie lavora in un altro call center della zona. “La paga è bassa ma è sicura, pulita e nessuno te la ruba”.
Da Il Fatto Quotidiano di lunedì 2 giugno 2014