I negoziati sul trattato di libero scambio che prevede la rimozione dei dazi ma soprattutto l'armonizzazione di normative e regolamenti, proseguono nell'ombra. In Europa c'è il timore che possa annacquare le protezioni per i consumatori e aumentare il potere delle aziende nei confronti delle istituzioni. E la vittoria elettorale degli euroscettici in molti Paesi mette a rischio la firma. Il semestre che vedrà l'Italia guidare il Consiglio Ue potrebbe essere decisivo
“Nel mondo, meglio soli o bene accompagnati?” chiede ai telespettatori l’ultimo spot di Rai Europa, che in un minuto e mezzo, “per informare, non influenzare” come recita in chiusura, intende spiegare agli italiani quello che è il più grande accordo commerciale mai negoziato dall’Unione: il Ttip. La sigla sta per Transatlantic trade and investment partnership, vale a dire un trattato di libero scambio che vede protagonisti Usa e Unione europea per creare una “free zone” di merci e servizi, non solo rimuovendo i dazi doganali (che sono già bassi, nell’ordine del 2-3%) ma anche superando le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè regolamenti e normative divergenti tra le due sponde dell’Atlantico. In pratica un’armonizzazione per interi settori economici come sicurezza e sanità, servizi pubblici, agricoltura, proprietà intellettuale, energia e materie prime.
Secondo il Centre for economic policy research di Londra, che ha prodotto lo scorso anno per Bruxelles una ricerca che giustifica l’adozione del trattato, l’accordo dovrebbe determinare una crescita di 90 miliardi di euro per l’economia Usa e di 120 miliardi – pari allo 0,5% del Pil – per quella europea. Tuttavia pochi giorni fa Alan Winters, professore dell’Università di Sussex e collaboratore dello stesso istituto di ricerca, ha dichiarato che stime più “plausibili” fanno pensare a un incremento dello 0,025% del prodotto interno continentale.
Le trattative sono partite in sordina un anno fa, quando i capi di governo dei ventotto Paesi dell’Unione hanno concesso l’autorizzazione alla Commissione Europea, e tuttora si cerca di mantenerle nell’ombra. Secondo quanto riportato da The Nation la senatrice democrat Elizabeth Warren, critica nei confronti della poca trasparenza del negoziato, ha affermato che “Wall Street, aziende farmaceutiche, telecom, grandi inquinatori stanno sbavando” davanti a questa opportunità, che sta passando sottotraccia per le grandi opposizioni che troverebbe se diventasse di dominio pubblico. Lo dimostrano precedenti come quello del Nafta: l’accordo per il libero scambio stipulato tra Usa, Canada e Messico nel 1992, la cui impostazione si avvicina a quella studiata per il Ttip, non gode di grande popolarità, avendo in vent’anni provocato diversi squilibri per i Paesi coinvolti, tra maggiore concentrazione della ricchezza e riduzione degli stipendi per i lavoratori fino al 20% in alcuni settori.
I rischi del Ttip per l’Unione non sono però solo di carattere economico. Da una parte, in Europa c’è il timore che si riducano le protezioni per i cittadini garantite dall’architettura regolamentare che ha permesso di limitare problemi come quelli legati agli ormoni nelle carni, ai pesticidi nel cibo o agli ftalati nei giocattoli. Dall’altra c’è la preoccupazione di aumentare il potere delle aziende nei confronti delle istituzioni. Uno dei punti più dibattuti, per il quale la Germania ha imposto alla Commissione una consultazione pubblica online, riguarda infatti l’Investor-state dispute settlement (Isds), un arbitrato internazionale per le controversie tra Stati e aziende che in altri casi ha portato queste ultime a citare in giudizio interi Paesi e governi. La consultazione, per il commissario Ue per il Commercio Karel De Gucht, serve a capire “se l’approccio proposto dall’Ue per la Tttip realizza il giusto equilibrio tra la tutela degli investitori e la salvaguardia del diritto sovrano dei governi dell’Ue e della loro capacità di legiferare nell’interesse pubblico”, un terreno senza dubbio scivoloso.
Secondo alcune ricostruzioni, fino ad aprile si erano tenuti 130 incontri nella direzione del Commercio Ue sul tema, di cui almeno 119 erano con imprese o lobbisti. Le negoziazioni intanto sono oggi giunte al quinto round, che si è tenuto ad Arlington (Virginia) tra il 19 e il 23 maggio. Il prossimo sarà a luglio. “A che punto è il negoziato da uno a dieci? Cinque”, ha dichiarato in conferenza stampaDan Mullaney, capo negoziatore americano e portavoce della US Trade Representative. Mullaney, secondo indiscrezioni, guida una delegazione di oltre 600 consulenti, che negozia con un ristretto team europeo di 6-7 persone alla cui testa c’è Ignacio Garcia Bercero, che guida la direzione generale del Commercio Ue.
Barack Obama, durante le sue ultime visite nel nostro continente, ha ricevuto rassicurazioni in merito alla chiusura degli accordi. Le ultime elezioni, però, hanno visto la crescita dei partiti euroscettici, un rischio per il proseguimento delle trattative. Così non è stato in Italia. E di sicuro un ruolo chiave lo avranno Roma, che si appresta a entrare nel suo semestre di presidenza e il premier Matteo Renzi, appena legittimato dal voto popolare.
Gli Stati Uniti intanto spingono. E parallelamente portano avanti un altro progetto di “free zone” per il quale è stato già siglato un protocollo di intesa e che fa riferimento invece all’altra sponda oceanica, quella pacifica. E’ stato battezzato Tpp, cioè Trans pacific partnership, e coinvolge, oltre agli Usa, Australia, Brunei, Canada, Cile, Indonesia, Messico, Nuova Zelanda, Peru,Singapore e Vietnam. Ttip e Tpp riguardano economie che superano complessivamente la metà del Pil mondiale. E se approvati avranno l’effetto di uno tsunami nel commercio internazionale. Il primo a farne le spese, con ogni probabilità, sarà il “vecchio” Wto, l’organizzazione mondiale del commercio.