Ora però deve fare i conti con quella verve occidentale che un terrorista della sua stazza attribuirebbe all’ingenuità di un “kafir” (miscredente). Perché Obama ha raccolto l’appello della consorte, perché Francois Hollande ha compreso che se non riuscirà a guadagnarsi la fiducia della gauche, almeno proverà a tirar su qualche consenso tra i nostalgici della Françafrique. E perché Cameron non ha certo intenzione di restare a guardare i suoi colleghi mentre gli sfilano da sotto il naso quello che per decenni è stato prima un protettorato, e poi una colonia britannica.
Ma l’improvvisa rincorsa all’intervento militare intavolata nelle scorse settimane a Parigi deve spingerci ad aprire una profonda riflessione. Andremo per ordine.
1. La donna è guerra. Il perché l’Occidente abbia iniziato a valutare la possibilità di scendere in campo in Nigeria proprio ora e non, ad esempio, a febbraio, quando Boko Haram massacrò e bruciò i corpi di 59 studenti di una scuola secondaria a Buni Yadi, qualche dubbio lo solleva. John Kerry sulla questione è stato lapidario, quanto eloquente: “Gli Stati Uniti si erano offerti più volte di aiutare le autorità nigeriane nella lotta al terrorismo, ma abbiamo sempre ricevuto risposte negative”.
In realtà il ricorso all’azione militare per difendere i diritti delle donne ricorda un modello già adottato in passato e in un certo senso familiare alla cultura occidentale. È il caso della guerra in Afghanistan lanciata nel 2001, quando Cherie Blair prima e Laura Bush poi (le rispettive first lady dei due ex capi di Stato: britannico e americano) non esitarono a rendere pubblico il loro sostegno al conflitto lanciato dai consorti. Chiesero ai loro coniugi di salvare le donne afghane, di liberarle dall’agonia del regime talebano. Il risultato, oggi, è noto a tutti: con milioni di sfollati e decine di migliaia di vittime, l’Afghanistan resta tra i peggiori Paesi del pianeta per l’emancipazione e la sopravvivenza femminile. Matrimoni forzati e stupri, anche nei confronti di ragazze minorenni, sono all’ordine del giorno.
2. L’intervento è possibile. Sul piano logistico non sarà difficile intervenire in Nigeria per gli Stati Uniti. Anche se Obama ha assicurato che si tratterà solo di una cooperazione di intelligence, vale la pena ricordare che l’Occidente è già saldamente radicato in Africa. Con un profilo diverso dall’Afghanistan e dall’Iraq, centinaia di militari statunitensi oggi sono impegnati in Niger, dove gli Usa mantengono la loro base per lo stazionamento dei Predator. Si tratta di un importante hub militare che, al fianco di quello di Gibuti, conferisce al Pentagono un punto d’appoggio strategico in Africa occidentale.
Il Niger confina a nord proprio con la Nigeria, confina anche con il Mali, recente teatro delle operazioni francesi e anglosassoni, e confina con la Libia, un paese al collasso, alle prese con continui rovesciamenti del potere. Nel 2012, ancora Obama ha invocato la “War Powers Resolution” per aumentare il numero dei militari dispiegati in Nigeria: una mossa inserita, peraltro, nell’ambito della missione Africom.
3. Oro nero. Visti i precedenti, credere che Washington, Parigi e Londra avvieranno un’azione militare con l’esclusivo intento di sconfiggere Boko Haram e ristabilire l’equilibrio generale in Nigeria significa peccare di candore. In ballo c’è l’industria petrolifera di un paese ricco di risorse minerarie e profondamente dilaniato da una storia coloniale e post-coloniale contrassegnata da violenti conflitti interni, spesso legati proprio alla gestione del greggio. Entrando nel campo delle ipotesi non è difficile supporre che gli Usa, investendo l’Eliseo della carica di loro portavoce, abbiano già garantito un sostegno tecnico-logistico al governo di Abuja in cambio di un maggiore controllo del Delta del Niger.
A tal proposito, il presidente nigeriano Goodluck Jonathan può dare molto agli Stati Uniti. Jonathan appartiene infatti agli Ijaw, un’etnia cristiana minoritaria a livello nazionale, ma che rappresenta la maggioranza della popolazione proprio nel Delta. Quindi quale miglior mediatore per far digerire ai nigeriani un eventuale intervento militare al Nord, dove Boko Haram mantiene il suo quartier generale.
4. Finanziamenti occulti. In molti si domandano come una milizia non dichiaratamente affiliata ad Al Qaeda riesca ad intraprendere azioni dai risultati terroristici così devastanti. Con ogni probabilità la galassia qaedista contribuisce a finanziare le casse di Boko Haram in cambio della garanzia che il gruppo non tenti di travalicare il proprio territorio, e quindi spingersi verso il Maghreb, o magari verso la Somalia e il Kenya, dove Al Shabaab mantiene una posizione dominante. Vi sono però altri tipi di introiti, più o meno nascosti, che sembrano provenire proprio dall’Occidente.
Nel 2012, il Nigerian Tribune ha parlato di un finanziamento a favore di Boko Haram rintracciato nel Regno Unito e in Arabia Saudita, proveniente dal Fondo fiduciario Al-Muntada. Simili accostamenti recentemente hanno coinvolto anche la Nato. In questo caso il passaggio di fondi sarebbe avvenuto, consapevolmente, in modo indiretto, durante il conflitto libico nel 2011, quando l’Alleanza – secondo alcune testimonianze – finanziò le forze ribelli in guerra contro Muammar Gheddafi, le stesse che ancora oggi amministrano gran parte dei governatorati del Paese ospitando teste calde legate a cellule qaediste, con cui Boko Haram continua ad intrattenere dei “rapporti di cortesia”.
5. Il ruolo del Fmi. Dietro le manovre degli ultimi giorni non è da escludere che un ruolo lo stia giocando anche il Fondo Monetario Internazionale. Dobbiamo risalire al 1 gennaio del 2012: il presidente Goodluck Jonathan, senza alcun preavviso, annuncia l’immediata rimozione di tutti i sussidi ai carburanti in Nigeria. In poche ore i prezzi della benzina esplodono quasi di tre volte, provocando insistenti proteste della popolazione. Con una tempistica sospetta, la direttrice generale del Fondo, Christine Lagarde, aveva visitato la Nigeria qualche giorno prima dell’improvvisa iniziativa presidenziale, definendo la misura un buon antidoto alla corruzione dilagante.
La Lagarde sapeva di mentire. Se il Fmi e la Banca Mondiale fossero davvero stati preoccupati per la salute dell’economia nigeriana avrebbero aiutato a ricostruire e a espandere l’industria locale di raffinazione del petrolio, lasciata invece marcire, in modo tale che il paese non avrebbe avuto bisogno in futuro di importare carburanti senza ricorrere all’uso di risorse del bilancio statale. La via più facile per farlo sarebbe stato accelerare la messa in opera dell’accordo, risalente a due anni prima, tra la Cina e il governo nigeriano per investire circa 28 miliardi di dollari in una massiccia espansione del settore di raffinamento del greggio. La realtà, oggi, ci descrive invece la Nigeria come uno degli stati più poveri del mondo, con un tasso di disoccupazione in continua crescita (nel 2013 era al 23,9%) e un livello di povertà drammatico: nel 2010 il 60% dei nigeriani viveva con meno di un dollaro al giorno.
6. La vera minaccia è la Cina. Nei fatti, in questa lunga battaglia di potere c’è sì il petrolio, c’è sì Boko Haram, ma c’è anche un nemico ben più grande da combattere, sempre sul fronte economico. La Cina non ha infatti mai smentito i suoi interessi verso il Continente nero. Secondo un’indagine sviluppata nel 2012 dal Center for Global Development, una partnership tra diversi college e centri di ricerca americani, il Dragone avrebbe investito oltre 75 miliardi di dollari in cinquanta Paesi africani tra il 2000 e il 2011, in almeno 1.700 progetti. L’importanza dell’Africa è stata resa chiara anche dal nuovo presidente cinese: la Tanzania fu la seconda tappa del viaggio inaugurale di Xi Jinping da capo di Stato, seguita dal Sudafrica, per il vertice con gli altri Paesi Brics, e infine il Congo.
Dopo lo storico contratto sul gas firmato nei giorni scorsi a Shangai tra Cina e Russia, per il valore complessivo di 400 miliardi di dollari, appare quindi difficile credere che nei pensieri di Obama, in Nigeria, sia prioritario il destino delle 270 studentesse rapite. È assai più probabile che i governi di Stati Uniti, Francia e Regno Unito vogliano assicurarsi che la nuova dirigenza di Pechino non prosegua le relazioni vantaggiose trattenute fino ad oggi in Africa. C’è chi si spinge a dire che l’obiettivo della missione Africom sia persino quello di creare un’altra grande “guerra al terrorismo” solo per salvaguardare gli interessi nazionali degli americani, ma le prove a carico di questa tesi, almeno per il momento, restano fugaci.