Si invoca sempre più il «modello francese» nella riforma del Senato italiano. Ma siamo proprio sicuri che la Francia rappresenti un modello in questo campo? Se si va su google e si inseriscono le parole «faut-il supprimer», «bisogna sopprimere», il motore di ricerca inserisce automaticamente «le sénat», con 2.020.000 link possibili: articoli di giornale, ma anche blog e appelli di ogni tipo, che chiedono chiaro e tondo l’eliminazione dell’assemblea, giudicata inutile e troppo costosa. « Non riesco a capire a che cosa serva», aveva dichiarato già a gennaio Marine Le Pen, leader del Front National, che si è imposto con risultati record alle ultime europee. Anche su quel punto la zarina dell’estrema destra aveva rotto per prima un tabù, dando voce ai desideri del francese medio.
Il Sénat: garanzia di democrazia o ibrido inutile? È l’articolo 24 della Costituzione della Quinta Repubblica a regolare ancora oggi il funzionamento della «Camera alta» francese. Quel testo fondamentale introdusse l’attuale presidenzialismo alla francese, a sua volta chiamato ad esempio da tanti esperti per una riforma costituzionale in Italia. Di fronte a un presidente con forti poteri e un’Assemblea nazionale eletta con un sistema maggioritario a due turni e sulla base di collegi uninominali, nel 1958 a Parigi si pensò di fare del Senato una sorta di contraltare democratico a quel nuovo sistema, che doveva ridare al Paese stabilità politica. Insomma, un correttivo e anche un contentino per chi criticava l’abbandono del proporzionale.
Il Sénat divenne l’emanazione degli enti locali, da un certo punto di vista quell’assemblea dei sindaci invocata da Renzi in Italia. Il Senato francese è eletto da 150mila «grandi elettori », che provengono dagli enti locali a diversi livelli, da quello comunale alle regioni. Ogni tre anni si rinnova la metà dell’assemblea (l’ultima volta nel 2011, quando la maggioranza del Sénat è passata alla sinistra per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica). Il Senato vota tutte le leggi, anche quelle di bilancio, ma, se le rigetta, l’Assemblea nazionale ha sullo stesso provvedimento inevitabilmente l’ultima parola.
Questo bicameralismo imperfetto non si è rivelato così efficiente. Capita ormai abbastanza spesso che il Senato rigetti un progetto di legge già passato alla Camera (la maggioranza è di sinistra, ma questa comprende anche i comunisti, che non fanno parte dell’attuale Governo e che, quindi, spesso votano contro, alleandosi con la destra). Ma questo non impedisce nella tappa successiva all’Assemblea nazionale di approvare il progetto di legge senza le modifiche apportate dal Senato. Raramente i deputati integrano nel testo finale le modifiche eventuali apportate dai senatori. E così tanti osservatori del mondo politico ritengono il ruolo del Senato inutile. Non solo, all’origine di perdite di tempo nell’approvazione delle leggi. Una delle ultime polemiche al riguardo scoppiò nel dicembre scorso, quando la manovra finanziaria correttiva 2014 fu rigettatata a sorpresa dai senatori. Quel «no» portò solo a ritardare l’approvazione del provvedimento (che pure era già una corsa contro il tempo…), senza generare modifiche rilevanti al testo finale.
Nel gennaio scorso, altra polemica: il Senato ha votato contro la revoca dell’immunità parlamentare per Serge Dassault, alla guida del più grosso gruppo francese produttore di armi, politico della destra, amicissimo di Nicolas Sarkozy e senatore, incriminato per un brutto affare di corruzione (avrebbe comprato voti per farsi eleggere sindaco di Corbeil-Essonnes). Protetto come un Berlusconi qualunque da quella che alcuni definirono la «mafia del Senato».
I numeri della discordia. Alcune cifre relative al Sénat stanno facendo lievitare l’insofferenza nei suoi confronti. L’assemblea, che dovrebbe costituire il riflesso della società francese, si riduce in realtà a un cimitero d’elefanti per politici ormai anziani, possibilimente marginalizzati. L’età media dei suoi 348 componenti ruota intorno ai 65 anni. In media alla sessioni assiste una trentina di senatori, grazie anche a un sistema che permette in molti (sicuramente troppi) casi la «delegazione del voto». I senatori rimangono intanto nelle loro città d’origine, di cui sono sindaci o dove svolgono altri ruoli a livello regionale o in altri enti locali. Possono cumulare mandati e, entro certi limiti, gli stipendi. Ogni senatore intasca un salario, al netto delle imposte, di 5.390 euro, ai quali, però, si aggiunge un primo indennizzo di 6.240 per le spese (trasporti, ma anche abbigliamento di rappresentanza…) e 7.548 per pagare i collaboratori, sempre mensili. Per il 2013 i contribuenti francesi hanno dovuto sborsare 336 milioni di euro per far funzionare il loro caro Sénat.
Futuro incerto. In questo contesto, però, è solo Marine Le Pen a chiedere espressamente l’eliminazione del Senato. François Hollande, l’eterno indeciso, presenterà nei prossimi giorni una riforma degli enti locali, all’insegna di una razionalizzazione del sistema e di una riduzione delle spese. Fra le altre cose, è previsto il taglio al numero delle regioni. Ma la riforma non dovrebbe toccare il Senato. Altri esponenti del Partito socialista chiedono di modificare il ruolo del Senato, ma nel senso di un suo potenzionamento o comunque di una maggiore legittimità, vedi Arnaud Montebourg, oggi ministro dell’Economia, che nel passato aveva presentato un progetto per l’elezione a suffragio universale del Senato con un sistema propozionale, sulla base dei collegi regionali. Intanto, vedendo che Renzi vuole riformare il Senato, riducendo a quota 148 i suoi membri, in Francia c’è chi afferma che proprio dall’Italia bisognerebbe prendere esempio per ridurre le spese relative alla “Camera alta”. Non si capisce più chi prende spunto da chi.