Metaforicamente, con la morte di Massimo, finiva il mio tempo adolescenziale e iniziava la vita adulta. Avevo da poco vinto il concorso in magistratura e iniziato una dura gavetta: era terminata la spensieratezza ed era incominciata la maturità. Se Troisi aveva così colpito e segnato gli anni in cui ero ragazzo a Napoli, gli anni durante i quali alternavo gli studi ai club in cui si sentivano James Senese ed Enzo Avitabile, è perché Massimo era in grado di entrare in contatto con l’anima dello spettatore come pochi altri. La lingua di Massimo, poetica e universale, era in sintonia profonda con le corde di un ragazzo, come di un uomo; parlava al napoletano, in napoletano, ma era comprensibile a tutti.
La sua comicità melanconica e indagatrice dell’animo umano e dello spirito di Napoli, così legata alla tradizione partenopea eppure così innovativa, in linea con quella rivoluzione che era stata portata avanti negli anni Ottanta in musica da Pino Daniele, era capace di parlare ad ogni interlocutore. A me, ragazzo, ma non solo. Con la maturità, ho ritrovato in Massimo Troisi tanti altri temi che allora mi erano preclusi. Questa capacità di parlare la lingua universale dell’arte, che è effettivamente la dote dei grandi talenti, gli permetteva anche di realizzare un’altra operazione artistica e culturale, appannaggio esclusivo veramente dei grandissimi della cultura napoletana: esprimersi solo e soltanto con la lingua napoletana, eppure parlare a tutta l’Italia, e non solo.
In questo modo, Massimo riaffermava sia l’universalità di quella concezione dell’arte di cui si faceva portatore, ma anche l’universalità della sua koinè: uno slang “urban partenopeo”, capace di mischiare la lingua colta con la “parlesia” dei musicisti; una neolingua così diversa dal canone classico eternato dai grandi del teatro napoletano, eppure capace di parlare a tutti, proprio come i grandi classici di Napoli.
Mi aveva sedotto di Massimo quella componente onirica, quell’aria da sognatore che sa di poter cambiare il corso delle cose, seppure timido e impacciato: una maschera diversa da quella del napoletano più baldanzoso e orgoglioso, a cui la Commedia dell’arte e Pulcinella ci avevano abituato. La sua era una sorta di forza tranquilla di un ragazzo come tanti: che aveva deciso di fare l’attore, nonostante gli consigliassero di fare più prosaicamente il geometra. Quel piccolo ma importante gesto di ribellione alla famiglia, che Massimo racconta in “Ricomincio da tre”, in cui tutti ci riconoscevamo. “Ricomincio da tre” è stato uno straordinario film generazionale che ci teneva incollati allo schermo: la pellicola dove Massimo ironizzava anche su certi stereotipi antimeridionali che, come il successo della Lega avrebbe dimostrato, non si sarebbero dovuti sottovalutare; a tutti coloro i quali gli davano, da napoletano a Firenze, dell’emigrante, Massimo replicava: “Emigrante perché? Un napoletano non può viaggiare ma solo emigrare?” Ecco, tutto torna: l’esperienza del viaggio, del cambiamento, un Kerouac napoletano negli anni in cui Napoli, per certi versi, ricordava proprio una post-metropoli americana. Viaggiare, e scrollarsi via destino, identità e appartenenza che altri ti hanno cucito addosso, come metafora universale di chi si sente battitore libero e non vuole fare il geometra o, peggio, la macchietta napoletana.
Come non leggere, poi, nella poesia di Massimo, un grande impegno sociale e politico. La fulminante gag della Smorfia, in cui era affiancato dai bravissimi Lello Arena ed Enzo De Caro, sugli investimenti per risolvere il problema della disoccupazione nel Mezzogiorno… investimenti sì, ma con i Tir! Oppure, lo scontro, ne “Il caffè mi rende nervoso”, fra Massimo e “Funiculà funiculà”, immaginario paradigma di quel conservatorismo culturale con il quale tutti i giovani si devono confrontare che, di fronte alle innovazioni del cinema di Trosi, chiosava: “Napoli non adda cagnà”. Mi sembra quasi di sentire qualche mio avversario politico!
Ciao Massimo. Ci manchi e ci mancherai sempre!