“Sono stato sindaco anche io. E come voi ricordo le polemiche: quanti cantieri abbiamo bloccato per la mancanza di un parere, per un diniego incomprensibile di una sovrintendenza, per le lungaggini procedurali. Quante volte siamo stati costretti a rinunciare a un investimento magari di capitali stranieri, certo innamorati dell’Italia, ma preoccupati del complicato sistema amministrativo del nostro paese”. Questo, uno stralcio della lettera inviata da Renzi ai sindaci d’Italia. Un’iniziativa preannunciata pochi giorni fa a Trento, che dovrebbe servire a conoscere e quindi a sbloccare i procedimenti e i cantieri fermi da tempo a causa di ritardi e inefficienze della pubblica amministrazione. Come fare? Facile! Sufficiente scrivere a matteo@governo.it.
Tra gli ostacoli alla realizzazione di infrastrutture che avrebbero consentito collegamenti più rapidi, come di opere che avrebbero dotato città e paesi di nuovi servizi, c’è nel suo complesso la sclerotizzata amministrazione italiana. “… per la mancanza di un parere, per un diniego incomprensibile di una soprintendenza …”, tanti cantieri sono rimasti bloccati, scrive il premier. Così le Soprintendenze tornano alla ribalta. Dopo che con il Consiglio dei Ministri del 30 aprile scorso aveva deciso l’accorpamento delle Soprintendenze. Nell’ottica di una “razionalizzazione e maggiore efficienza nel rapporto con i cittadini”, come affermato dal ministro Franceschini. Ma anche dopo un dibattito che negli ultimi mesi si è riacceso. Non tanto sulla loro utilità, ritengo, indubitabile. Piuttosto sulla necessità di renderle capaci in maniera uniforme da una regione all’altra, da un’area di pertinenza all’altra, di svolgere il loro imprescindibile ruolo di tutela e valorizzazione. Un dibattito che ha raggiunto toni anche aspri. Contribuendo a formare le due consuete fazioni, contrapposte, dei “favorevoli” e “contrari”. Con la schiera dei primi, ingrossata, dalla gran parte dei cosiddetti addetti ai lavori e l’altra, invece, costituita da tanti rappresentanti del cosiddetto mondo produttivo. Agli inizi dello scorso marzo in un articolo dal titolo inequivocabile su La Repubblica, “Tutti i no delle Soprintendenze che ostacolano i tesori d’Italia” Giovanni Valentini denunciava la pratica a suo dire ricorrente dei funzionari delle Soprintendenze ad impedire o quantomeno ritardare “per anni la realizzazione di una piccola o grande opera, la ristrutturazione di un edificio storico, il restauro di un monumento o di un altro bene artistico e culturale”. Con il risultato di giungere a “la paralisi della conservazione”. Le reazioni a quel ragionamento quasi fuori misura. Perfino rabbiose. Con tanto di raccolta firme di contrari a quel giudizio ritenuto sovversivo. Una tesi quella di Valentini che ora sembra riaffacciarsi, ancor più prepotentemente considerando che a sostenerla è il premier. Il quale sembra ritenere che a sbloccare l’Italia, e quindi a farne un Paese moderno, possa servire intervenire anche sulle politiche delle Soprintendenze. La questione, ovviamente delicata.
Più precisamente, sensibile. Anche perché i detrattori di quest’ultima incursione di Renzi fanno a gara nel lodare l’operato di quegli uffici del Mibac. Ricordando i tanti casi nei quali proprio la fermezza di funzionari coraggiosi ha restituito frammenti più o meno cospicui delle nostre antichità. Ovunque. Da Cagliari a Genova. Da Milano a Roma. Città sulla quale si è soffermato Vittorio Emiliani, in un articolo su L’Unità del 1 giugno. Il titolo, già di per sé esplicito, “La bellezza sotto Roma. Ogni giorno una scoperta dal centro alla periferia. Il lavoro fondamentale della Soprintendenza”. Le sue affermazioni, incontrovertibili. I casi riportati, esemplari.
Il problema forse questo. La questione, temo, mal posta. Perché è vero che gli esempi di monumenti ed aree archeologiche su e giù per l’Italia strappate alla distruzione certa sono molti. Ma non si fa fatica ad elencare casi nei quali altri monumenti ed aree archeologiche sono finite per essere affogate nel cemento. Magari dopo essere state rinterrate provvedendo, preliminarmente, a coprire le superfici archeologiche con teli di protezione. Certo si può obiettare che non tutto sia meritevole della conservazione. Anche considerando le esigue risorse a disposizioni. Tutto vero. Inoppugnabile. Quel che appare più incerto, meno definito, è altro. Molto altro. L’impressione, corroborata dall’analisi della storia delle scoperte degli ultimi venti-venticinque anni, sembra piuttosto indicare come troppo spesso abbia giocato un ruolo determinante la capacità, oserei dire la sensibilità, dei differenti funzionari, nei confronti del ritrovamento. E’ così che i “troppi no” di Valentini e “il diniego incomprensibile” di Renzi piuttosto che contrapporsi ai casi virtuosi ricordati da Emiliani nel territorio di Roma, si confondono con essi.
Meriti e demeriti, ragioni e torti, si fanno parte di un tutto. A Roma, da un lato, la distruzione di parti considerevoli di maestose tagliate stradali alla Bufalotta, nei pressi del centro commerciale “Porta di Roma”, così come quelle della vasta opera di bonifica con anfore betiche, individuata all’interno degli ex Mercati Generali all’Ostiense. Dall’altro, la cisterna scoperta e musealizzata a Piazza Cesare Baronio, a San Giovanni e i resti degli Horti Lamiani, individuati a Piazza Vittorio sotto il Palazzo dell’Enpam. Così le Soprintendenze sembrano aver smarrito la loro efficacia. Non solo per l’incapacità a fronteggiare assalti sempre più serrati. Ma forse anche per propri demeriti. L’organizzazione, troppo fragile. Eccessivamente dipendente dall’operato degli ispettori. In ogni caso in numero quasi ovunque insufficiente a svolgere con efficacia i propri compiti. Generalmente logorati da un servizio molto lungo. Troppo spesso senza il necessario ricambio. Anche per questo la delegittimazione delle Soprintendenze o almeno la ridefinizione del ruolo decisionale, non sarebbe un’operazione utile. Anzi, è più che probabile che sarebbe deleteria. Consegnando il Paese agli interessi. Ad una distruzione accelerata del suo Patrimonio. In questo modo si sbloccherebbero tante opere, ma si correrebbe il rischio di desertificare territori e città. Privandoli non solo delle pietre dei suoi monumenti, ma anche, soprattutto, di tanti luoghi di identificazione. Per riavviare quel che è fermo, servirebbe non decidere di rinunciare a qualcosa in nome di qualcos’altro. Per sbloccare il Paese non bisognerebbe eliminare chi pronuncia “un diniego incomprensibile”. Né tanto meno azzerarne l’autorevolezza. Ma riorganizzare dalle radici la struttura della quale sono parte i tanti “no” e i non meno “si”.
Serve coraggio. E’ necessaria una capacità non comune. Quella di uscire dalle contrapposizioni, costruendo una nuova architettura. Funzionale e funzionante.