Arroccato su uno dei colli intorno alla città, in una storica osteria ridisegnata a salotto borghese, lo chef Piergiorgio Parini propone una delle versioni più audaci ma non confuse, saporose e mai sfocate, fresche e non leccate, della cucina italiana
Sono altri i motivi che di solito spingono le persone nel riminese. Eppure la gioia di poter provare una delle punte d’eccellenza della cucina italiana dovrebbe bastare. Ma non sono ancora in molti ad essere arrivati a Torriana: un paesino di 1500 abitanti su una delle colline tacite e verdeggianti, fra mare e montagne, costellate di borghi e rocche e castelli, dove i Malatesta regnarono dalla fine del XIII secolo all’inizio del XVI.
Insomma, un angolo di Italia quasi opposto a quello della nota e chiassosa località marittima che si può scorgere, lungo la linea di costa adriatica, da un belvedere presso l’Osteria del Povero Diavolo. E’ il nome d’uno dei più convincenti ristoranti d’Italia. Così come attesta un scritta in stile floreale, pittata su un edificio austero dallo spatolato rossiccio al cui interno c’è il locale condotto da Fausto Fratti e sua moglie Stefania. Anno dopo anno, i due hanno ristrutturato l’edificio della famiglia di Fausto, ottenendo anche una locanda con 5 stanze (una delle quali ad uso della coppia).
Il ristorante è composto da due sale. Una più contenuta, con camino, tavoli rotondi e vista su una cucina che non è così ampia come si è soliti trovare in luoghi di tale livello, dove operano 4-5 persone (numero che sorprende per esiguità), oltre al nemmeno quarantenne chef Piergiorgio Parini: un ragazzone autoctono, incerto solo nell’espressione del volto e nelle parole, perché audace e talentuoso nei piatti.
La seconda sala del ristorante è più grande e curata, biancheggiante anche nei fiori freschi e caratterizzata da una grande vetrata sul dorso d’una collina, quasi a sottolineare l’importanza primaria che lo chef dà agli ingredienti locali, e specie a quelli vegetali: il menù cambia spessissimo, anzi di più. La sala, nel corso della serata, si riempie con una tavolata da una dozzina di persone, quasi anacronistica in tali oasi del cibo, curiosamente contrastata da un tavolo a cui siede un singolo, nerd della gastronomia che studia le due pagine della lista delle vivande per venti minuti, prima di arrivare a scegliere uno dei tre menù: tre portate a 55 euro, sei portate a 75 euro e nove portate a 95 euro. Tutte rigorosamente non menzionate. Nell’ambito enologico si tratterebbe di una “degustazione alla cieca“, in quanto recita la carta: “Se i menù sono a sorpresa l’ intento non è quello di stupire ma di suggerire un giusto approccio per conoscere e valutare questa esperienza, per lasciare a noi la libertà di spaziare con gli ingredienti ed a voi la curiosità di scoprire accostamenti e sapori nuovi nella scelta fra menu di tre, sei, nove piatti”.
Nell’altra pagina della carta della vivande, però, sono “esplicitate” 4-5 portate con tanto di prezzi moderati, poco avvezzi a una cucina di altissima qualità. La mise en place non è così curata e non brilla nemmeno per varietà: né di posate, né di piatti, né di bicchieri. Viene servito un vino bianco nello stesso calice in cui sarà servito il vino rosso: peraltro annaffiando anche il centro tavola, che riuscirà punteggiato di macchie. Servizio dunque non a livello dello chef, per quanto Stefania sia accogliente ed educata. A differenza di Fausto che appare po’ meno accogliente, ma in realtà è solo desideroso di appagare il cliente: malgrado alla richiesta di un calice di Champagne come aperitivo (e già che si è dovuto richiedere…), risponde schiettamente che non è solito avere Champagne in mescita, al più Prosecco, in quanto c’è il rischio di non consumarlo tutto e dunque di sprecarlo, di venerdì sera, sulle colline riminesi. Ovviamente poi Fausto si contraddice e offre un calice di vino indigeno rifermentato, che altri qualificherebbero come “spumante naturale“, affermando di non averlo però aperto per compiacere il tavolo che aveva richiesto Champagne, ma solo per lui, per berselo lui.
Non bastano più di vent’anni a saggiare ristoranti per smettere di stupirsi. La carta dei vini è più trafelata che bilanciata, non manca però qualche bottiglia per cercare di farsi perdonare (Langhe di Giuseppe Rinaldi 2011) a prezzi medi. Il menù risulta invece molto vario, quantunque ignorato perfino dai proprietari (“è la prima volta per molte portate”): le porzioni sono giuste, non striminzite, né troppo cadenzate fra la loro, scongiurando l’effetto sazietà che cade nello stomaco puntualmente dopo 20 minuti. Unico neo la richiesta di avere piatti “senza lattosio” per uno dei commensali, che verrà tradotta nel portare gli stessi piatti degli altri ma senza gli ingredienti a cui viene arbitrariamente imputato il lattosio. Una ingenuità.
Comunque ottimo il pane integrale da lievito madre/farine assortite e i grissini, gustosa la focaccia. Nel complesso si ha il piacere, anzi la gioia, di assaggiare una cucina ispirata e riuscita, di varie consistenze e contrasti, che mai riesce confusa o squilibrata. La ricerca è al servizio del gusto. La tecnica non è sbandierata, i piatti non sono ostaggio di equilibri oscuri. Qua regna il sapore, il gusto deciso ma delicato, fermamente e felicemente rappresentativo della migliore cucina italiana. Non ci sono ostentazioni, nemmeno di sapori o consistente antitetiche, ma tanta spontanea e divertita creatività. Niente esterismi, niente citazioni banali o autoreferenziali. Nonostante le enumerazioni di tanti ingredienti combinati, le erbe aromatiche, i fiori edibili o le spezie, lo chef Piergiorgio Parini offre una delle più audaci e saporose, fresche e precise versioni della cucina italiana: anche se qualche impiattatura, qualche impostazione visiva dei piatti, potrebbe essere rivisitata.
Spiccano:
– lo gnocchetto glassato alla feta, spinaci insalata passita olive e carré d’erbe con salsa di limoni arrostiti e scheggia di bottarga di rombo: molto gustoso e straordinariamente omogeneo.
– il pomodoro fresco al succo di levistico (sedano di monte) con scampetti seppia e canestrello (mollusco), polvere di sumac (pianta del sommaco) e curry, erbe secche, fiori di acacia ed erbe aromatiche (melissa e cetosa) in salsa di pomodoro al Cointreau: tutto concorre a scoprire, in freschezza, la delicatezza e il sapore dei crudi.
– spaghetti alla chitarra con sugo di rapa rossa cotto, impasto aglio olio peperoncino e punta di yogurt: coraggioso, riuscito e ghiotto.
– tortelli di coniglio stufato con asparagi selvatici piselli pepe rosa cosparsi di sambuco: eccellente, davvero saporito, sempre giocato fra le diverse consistenze.
– agnello nespole fave cipollotti salsa di yogurt e finocchietto: la qualità della carne e la sua affumicatura (con piccolissimo barbecue in cucina e non affumicatori) è fuori discussione. – pistacchio e cetosa, biscotto al burro di capra e artemisia in polvere: di grande entrata, delude un poco per la soverchiante burrosità del biscotto.
– gelatina, mirtillo, rabarbaro sciroppato, crema, cioccolato bianco e zenzero, rose e lamponi, fragole fresche, succo di finocchietto ed erbe aromatiche: interessante per freschezza e componente vegetale ma poco compiacente per un dessert, seppure d’ispirazione nordeuropea.
Nel finale piccola pasticceria, ottima, e un conto che si aggira sui 100 euro a persona vino incluso.