Come le maggiori industrie tedesche hanno già confessato, anche la casa di Ingolstadt utilizzò i prigionieri dei campi di concentramento nelle sue aziende. Secondo uno studio commissionato dalla stessa Audi, l'Auto Union è moralmente responsabile di almeno 4.500 morti. Infangata anche l'immagine del fondatore
L’Auto Union, oggi Audi, ha sfruttato il lavoro forzato dei prigionieri dei lager durante gli anni del nazismo: un nuovo studio porta alla luce gli orrori con cui la Germania continua a fare i conti a settant’anni di distanza. La ricerca, firmata dagli storici Martin Kukowski e Rudolf Boch, è stata commissionata dalla stessa Audi per fare chiarezza sul suo passato: da documenti e testimonianze raccolti in 500 pagine di pubblicazione, risulta che circa 3.700 prigionieri provenienti da sette campi di concentramento furono impiegati come schiavi sulle linee produttive della Auto Union. Altre migliaia di persone, pur non detenute nei campi di concentramento, ma costrette ai lavori forzati, furono sfruttate nelle fabbriche di Zwickau (in basso, una foto del 1937) e Chemnitz. Dall’archivio di Leitmeritz (oggi in Repubblica Ceca), campo satellite di Flossenburg, risulta inoltre che migliaia di prigionieri furono utilizzati per la costruzione di una fabbrica sotterranea. Secondo lo studio di Kukowski e Boch, l’Auto Union “è moralmente responsabile dello sfruttamento di almeno 18mila persone e di 4.500 morti”. In totale, l’azienda impiegava 50mila operai, per cui la quota di lavoratori forzati e di prigionieri dei campi di concentramento era alta persino per la triste prassi dell’epoca.
Lo studio colpisce l’immagine dell’Audi anche a causa dell’implicazione diretta del fondatore dell’Auto Union: lo studio individua infatti Richard Bruhn come princiaple responsabile dello sfruttamento dei prigionieri, perché dal 1942 le decisioni dell’Auto Union sono quasi esclusivamente riconducibili a lui. Del resto, Bruhn era molto vicino al partito nazista, di cui era membro dal 1933. La figura di Bruhn, che nel ’53 ricevette persino la Gran Croce al Merito della Repubblica Federale di Germania, dovrà ora essere rivalutata: il sindaco di Ingolstadt, città dell’Audi, ha già annunciato che cambierà il nome della strada a lui intitolata. Così come sarà tolto il riferimento a Bruhn dal nome di un fondo pensione per i lavoratori Audi.
I vertici della casa dei quattro anelli hanno descritto i risultati dello studio come “scioccanti”, ma in realtà l’Audi arriva molto tardi a fare quello che tante aziende tedesche hanno già fatto in passato, cioè indagare sulla loro storia per prendere le distanze da quello che fecero negli anni 30 e 40. Non a caso, secondo la stampa tedesca anche l’Audi fa parte dal 1999 di una fondazione che risarcisce, almeno economicamente, le vittime del lavoro forzato dell’epoca nazista. Lo storico tedesco Joachim Scholtyseck, intervistato tempo fa a questo proposito, aveva detto alla Deutsche Welle: “Durante la seconda Guerra Mondiale, nessuna azienda era veramente pulita. Tutti ricorrevano al lavoro degli schiavi quando i loro operai erano al fronte, anche le aziende di noti oppositori del regime come l’industriale Robert Bosch”. Già nel 1996, la Volkswagen aveva commissionato uno studio da quale erano risultate pesantissime commistioni fra i vertici del partito nazista e quelli dell’azienda, che anche in quel caso sfruttò il lavoro gratuito di prigionieri di guerra e detenuti dei lager. Nel 2011, anche la famiglia Quandt, azionista di maggioranza della BMW, ammise di aver fatto ricorso al lavoro forzato nelle sue fabbriche durante il regime, così come aveva riconosciuto la Daimler ancora negli anni 80.