Oggi è la 42esima Giornata Mondiale dell’Ambiente, una iniziativa promossa dall’Assemblea generale delle Nazioni Unitesin dal 5 giugno 1972. Quest’anno è dedicata alla difesa delle piccole isole che rischiano di scomparire a causa dell’innalzamento degli oceani e degli sconvolgimenti atmosferici provocati dai cambiamenti climatici. Mai come quest’anno tale ricorrenza si intreccia con la politica globale. I cambiamenti climatici – per alcuni burloni ancora una leggenda metropolitana, roba da orsi polari a corto di ghiacci o, appunto, storia di remotissimi atolli troppo a fior d’acqua (ammesso che di questo possa non importarci) – sono in bella evidenza nell’agenda delle grandi economie mondiali.
Pochi giorni addietro Barack Obama ha annunciato un decreto con cui gli Usa si impegnano a tagliare le emissioni climalteranti del settore energetico del 30%, rispetto ai livelli del 2005, entro il 2030. La Cina ha risposto il giorno dopo, per bocca di un influente consulente del governo, con un impegno del medesimo segno: prevedere nel prossimo piano quinquennale, che entrerà in vigore nel 2016, un limite alle emissioni di CO2 che saranno regolate in termini di “intensità” (ovvero, quanti gas serra possono essere emessi in rapporto all’energia prodotta) e, per la prima volta, in termini di quantità assoluta.
Pare essersi innescata una dinamica virtuosa, e sembrerebbe persino esserci una certa ‘competizione’, tra le grandi potenze mondiali, a mettere in campo politiche serie e concrete per il contrasto ai cambiamenti climatici. Greenpeace lo aveva sempre detto: serviva un apripista, qualcuno che rompesse unilateralmente la dinamica dei veti (o degli alibi) incrociati. Va riconosciuto, con una misura di realismo, che nessun impegno serio di riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe mai possibile se esso non coincidesse con un principio di fattibilità economica, o addirittura di convenienza. Sin qui la politica ha mostrato un volto alquanto cinico rispetto all’allarme lanciato univocamente dalla scienza sui rischi del climate change: e credere a una conversione repentina potrebbe essere da ingenui. Se si comincerà a difendere seriamente il clima, probabilmente sarà perché la storia dell’industria energetica va verso la fine dell’età delle fonti fossili, e verso l’inizio (o il consolidamento) di quella delle rinnovabili e dell’efficienza. Perché difendere il clima conviene. Ma anche questo – per quanto costosa possa essere la conversione del nostro sistema energetico – lo sosteniamo da tempo.
Oggi le politiche di abbattimento delle emissioni di gas serra coincidono con l’innovazione, con la ricerca, con l’ammodernamento delle infrastrutture di produzione dell’energia e delle reti elettriche; e, ancora, con l’efficienza, con la lotta all’inquinamento atmosferico, con la possibilità di ridurre l’esposizione dei sistemi energetici alle fluttuazioni dei costi delle fonti fossili, o di sottrarli alle incertezze di approvvigionamento che derivano da tensioni, conflitti, guerre che spesso si addensano proprio nelle zone del pianeta strategiche per l’energia.
Cosa spinge gli Usa e la Cina a muovere concreti passi verso la riduzione delle emissioni di CO2?
Gli Stati Uniti di Obama sono un paese in cui lo shale gas – una fonte tutt’altro che pulita ma con una minore intensità di gas serra rispetto ad altre – sta sottraendo spazio al carbone; che a sua volta già da diversi anni viveva una seria crisi, accelerata, dal versante ambientalista, dal computo economico dei danni sanitari ascrivibili a questa fonte. Inoltre anche negli Usa le rinnovabili si stanno affermando rapidamente e tra la fine del 2013 e l’inizio di quest’anno l’80% della nuova capacità installata era composta da tecnologie pulite. L’amministrazione Obama vede la possibilità di ammodernare il sistema energetico come un volano che sosterrà l’economia, farà crescere l’occupazione e confermerà la federazione nel suo ruolo di avanguardia industriale. Il piano di abbattimento delle emissioni dovrebbe creare ricchezza tra i 55 e i 93 miliardi di dollari, molta se comparata ai costi stimati tra i 7,3 e gli 8,8 miliardi di dollari.
La Cina, per contro, è un gigante che sta investendo fortemente in rinnovabili ed efficienza. Dal 2006 è il più grande emettitore di gas serra, anche se le emissioni pro capite sono ancora lontane dai livelli statunitensi. Da qui al 2017 vuole triplicare la potenza installata solare; sta investendo consistentemente in eolico ed efficienza e già nel 2010 era il più grande investitore al mondo in rinnovabili, con oltre 54 miliardi di dollari spesi. La scorsa estate ha annunciato un piano per investire, entro il 2015, la cifra record di 294 miliardi di dollari. Qui lo scenario è ben diverso: la Cina ha consumi energetici ancora in forte crescita e molto di quanto viene realizzato oggi serve per coprire gli incrementi di fabbisogno. Ma è evidente che il colosso orientale sta optando per uno sviluppo che guarda in là negli anni, pianificando un sistema energetico ad alta intensità tecnologica e a basso tenore di carbonio. Il governo cinese deve anche porre rimedio, molto urgentemente, ai livelli di smog atmosferico, divenuti ormai letali, sui quali insistono pesantemente anche i consumi di energia e il carbone sopra ogni altra cosa.
Gli impegni espressi sin qui da Usa e Cina possono bastare? La risposta è no. È indicativo che il termine di paragone per gli USA, quanto ad abbattimento delle emissioni, sia il 2005; quanto agli impegni del governo cinese, ancora si sa molto poco. Si può e si deve fare molto di più; è legittimo attendersi un impegno crescente, da due Paesi peraltro duramente colpiti, a più riprese, dal cambiamento climatico. Tuttavia non si può negare che qualcosa si sta muovendo, e la partita vera si giocherà tra un anno e mezzo a Parigi, dove si cercherà di costruire un nuovo accordo globale sul clima.
In questa dinamica l’Europa rischia di rimanere schiacciata, se non cambierà passo. La crisi Ucraina sta mostrando la fragilità del nostro sistema energetico, troppo dipendente dall’import di gas e di altre materie. Non è un caso che mentre Obama profila una radicale innovazione negli Usa, si prepari anche a fornire nuove fonti fossili per consentire all’Ue di chiudere serenamente i rubinetti del gas russo. L’Unione dovrà compiere presto una scelta, che potrebbe persino coincidere con il semestre di presidenza italiano. Un sondaggio diffuso ieri da Greenpeace dice che la larga maggioranza (tra il 61 e l’84 per cento) dei cittadini di Germania, Francia, Inghilterra e Italia è convinta che la dipendenza dall’import di fossili sia un problema per l’economia del proprio Paese; e che una maggioranza ancor più ampia (tra il 79 e il 91 per cento) vede nelle rinnovabili e nell’efficienza la soluzione del problema. Intanto, nel 2012, l’Unione ha ridotto le proprie emissioni di gas serra dell’1,3%, ed è pronta per conseguire gli obiettivi di Kyoto al 2020 con largo anticipo. La buona notizia è che metà di questa riduzione viene dall’Italia, che ha fatto registrare un calo del 5,4% rispetto all’anno precedente. 26,5 milioni di tonnellate di CO2 emesse in meno. Il clima, ancora assai spaventato, timidamente ringrazia.
di Andrea Boraschi, responsabile campagna Energia e Clima – Greenpeace Italia