Se la cultura è quella dei ladri. Vengo da una regione dove la gente pensava di essere diversa, e forse un tempo lo era veramente, altri tempi. Ora ‘Roma ladrona’ anche in Veneto suona come una barzelletta di Macario, e non c’era bisogno di aspettare le epiche gesta di Galan, Chisso & C. per saperlo. Che tutta l’Italia sia ”paese’ quindi è fuori discussione. Forse come scriveva Shakespeare ‘non c’è mondo fuori della mura di Verona’, ma le tangenti sì, eccome. Siamo sommersi da un livello di corruzione, da un materialismo, da una tale dose di inciviltà, che la scelta migliore dovrebbe essere il silenzio, perché di fronte a tutto questo chiasso, a tutti quelli che si stracciano le vesti, vedere che poi non cambia nulla e tutto resta come prima, anzi peggio di prima, rende inutile la parola, rende volgare la ragione, troppo distanti dai fatti in questo paese, abbonato purtroppo all’incoerenza e alla dissimulazione.
La prova provata dell’inutilità di qualsiasi discorso contro la corruzione è nei fatti. De Mandeville, un pensatore libertario anglo-olandese del XVII secolo, scrisse che i vizi privati divengono pubbliche virtù e non pochi, già a incominciare da Smith, pensavano che fosse una fesseria. Ma noi siamo andati ben al di là, oltre ogni egoistico principio libertario (e saremmo un paese cattolico!!!!), da noi il vizio pubblico è divenuto virtù privata, mezzo per campare, non solo per quanti hanno responsabilità politiche, economiche e amministrative, ma per tutti, ad ogni livello. Il PIL del paese in gran parte oggi si fonda sul malaffare. Dispiace dirlo ma è così.
Basta guardarsi attorno. Il furto semplicemente è proporzionale alle possibilità degli individui. Chi può tanto, ruba tanto. Chi può poco, ruba meno, ma quelli che stanno fuori da questa moda sono un’esigua minoranza. Non a caso ‘rubare’ è il termine più importante nel lessico economico della lingua italiana. Alla pari dei Sami (lapponi, volgarmente) che fondano la loro economia sulle renne e per questo hanno oltre un centinaio di termini per distinguere i vari tipi di renna (J. Turi, Vita del Lappone, Adelphi), noi italiani abbiamo almeno trenta parole per dire furto (sòla, bidone, fregatura, pacco, stangata etc….), più di qualsiasi altro concetto. Su certe cose è meglio essere precisi.
La corruzione non sono solo le buste di qualche politico, è un sistema di appartenenza. La corruzione non significa solo accettare dei soldi ottenuti per alterare illecitamente determinati atti. La corruzione si radica nel desiderio di far parte del ‘giro’, del club di quelli che contano e che accettano che le regole non siano imposte dall’esterno, ma che sia lo stesso club a stabilirle. È una forma implicita di omertà e di appartenenza che si radica nel desiderio di arricchirsi o di emanciparsi socialmente e considera questo (legittimo) desiderio come al di sopra delle leggi e delle regole di convivenza. Non è solo nei politici, è nei professionisti che restano silenti davanti alle altrui violazioni; nel ‘pecunia non olet’; nei comuni cittadini che cercano le scorciatoie per un permesso o per una multa; nell’accettazione quotidiana e supina di un sistema iniquo, ma che è meglio non cambiare, ‘perchè prima o poi potrà tornarci utile’; in una mentalità diffusa.
Il fondamento della corruzione si radica più nel silenzio degli individui di fronte all’ingiustizia e all’illegalità, che non negli atti specifici. Più nel desiderio di fare carriera ‘a ogni costo’ che nell’uso improprio del denaro pubblico. Per questo, qualche miglioramento, se mai ci potrà essere, deriverà solo da una (ora rischiosissima) rivolta individuale delle persone. Per ora accontentiamoci di sbatterne in galera qualcuno, ma cambierà poco.