Se esistesse la formula chimica della corruzione, forse nella vicenda del Mose di Venezia si potrebbero isolare tutte le sue componenti elementari. Prendendo spunto dai primi passi dell’inchiesta giudiziaria che ha portato ieri a una retata di politici, funzionari e imprenditori degna di “mani pulite” – per ampiezza e rilievo dei protagonisti – in un post dello scorso ottobre avevo sottolineato come la filosofia che ha ispirato promotori e artefici di questa realizzazione rifletta un approccio scientificamente discutibile. Non perché i ben foraggiati ingegneri e progettisti abbiano fatto male i calcoli, ma perché l’idea stessa di “congelare” per almeno un secolo con uno strumento tecnologico concepito da oltre vent’anni – per giunta ad altissimo impatto ambientale – la soluzione a un problema complesso come la salvaguardia della laguna veneziana pone le premesse per un possibile disastro ambientale prossimo venturo. La catastrofe per i bilanci pubblici è già un dato di fatto, i costi per l’erario del sistema di paratie mobili sono triplicati rispetto alle previsioni iniziali e veleggiano ormai intorno ai 6 miliardi di euro. Non è escluso che la cementificazione del fondo e la conseguente alterazione dei flussi di corrente e di maree completino l’opera devastando il fragile ecosistema lagunare: oltre al danno, la beffa.
Ne valeva la pena, quando una pluralità di interventi meno invasivi avrebbe fornito una soluzione flessibile, adattabile ai futuri sviluppi delle conoscenze tecnologiche, forse più efficace a una frazione minima del costo del gigantesco Mose? Certo che sì, risponde il coro angelico dei rappresentanti politici egemoni in Veneto e a Roma, un po’ scossi dagli arresti ma saldi nelle loro convinzioni, e così suona la grancassa dei media: il dogma della Grande Opera non si tocca, vuoi vedere che a qualcuno venga in mente di associare queste storie di tangenti veneziane – dopo quelle targate Expo – all’impellenza di avviare gli scavi della Tav Torino-Lione, in attesa che qualcuno magari rilanci il progetto del ponte sullo stretto o di un’Olimpiade all’amatriciana. Per quanto l’inchiesta sia in una fase iniziale, e le responsabilità penali tutte da accertare, grazie alla maxi-retata forse si colgono finalmente alcune ragioni celate nella retorica della grandissima realizzazione “orgoglio dell’ingegneria italiana nel mondo”. Dietro il facile consenso dei cantieri che si aprono, dei soldi che girano, dei professori prezzolati che incensano l’opera in convegni posticci a uso e consumo televisivo, sembra oggi affiorare un ricorrente grumo di interessi opachi, l’affarismo politico che va a nozze con l’imprenditoria politicamente etichettata. Simile alla cupola dell’Expo, per capirci, ma con una lungimiranza e un’adattabilità che la triade di faccendieri lombardi avrebbe potuto forse conseguire solo se l’esposizione universale fosse durata trent’anni.
Lo scandalo veneziano di oggi affonda infatti le due radici in un patto di ferro sancito per legge già nel 1984, con l’istituzione del Consorzio Venezia Nuova (CNV), concessionario unico e quindi monopolista inossidabile per la realizzazione delle opere di salvaguardia della laguna. In altre parole: un soggetto privato che esercita attività pubbliche seguendo il formale indirizzo di un “Comitatone” (composto da rappresentati del Governo, Regione e Comuni) e sotto blanda sorveglianza del Magistrato alle Acque che oggi si scopre essere stato a guinzaglio dei controllati – del resto in certi ambienti chi ha in mano il portafogli comanda. E se il CNV si è dimostrato col tempo uno straordinario congegno rastrella-finanziamenti pubblici, grazie alla sua capillare azione di lobbying, la realizzazione del Mose rappresenta il suo Jackpot. In quello tsunami di contratti d’appalto è toccato infatti ai soci privati del Consorzio offrire agli enti pubblici i loro servigi per la pianificazione degli interventi, sovrintendere alla progettazione, acquisire i permessi, affidare i lavori, supervisionarli sotto il profilo tecnico ed economico. Ma affidare a un gruppo di costruttori la funzione di gestire le procedure di appalto, per citare il Roberto Benigni di un vecchio tour, è un po’ come fare il mostro di Firenze primario di ginecologia. Più sobriamente, il sito del Consorzio Nuova Venezia sottolinea che la sua struttura privata “ha consentito di agire in questi anni con iter procedurali snelli e efficaci”, e se questo ha allentato le maglie dei controlli, moltiplicato gli affidamenti negoziati senza gara (controllare l’apposita sezione nel sito CNV per credere), fatto lievitare esponenzialmente i costi, permesso a imprese inquisite per mafia di ottenere subappalti – un po’ come l’urgenza sopravvenuta dell’Expo – pazienza: magari è un prezzo da pagare per la modernizzazione del paese…
Sarebbe da studiare come esempio forse unico al mondo di saldatura armoniosa di tutte le anime di un’imprenditoria politicamente protetta la composizione di questo consorzio, in un arcobaleno partitico che ad oggi ricomprende cooperative rosse, società di costruzioni verde padano e azzurro forzitalico, tutte felicemente accasatesi con nuovi padrini politici dopo gli sconquassi di tangentopoli, pur lasciando spazio anche a sotto-consorzi necessari a non lasciare a bocca asciutta le aziende locali. Del resto la concordia bipartisan degli affari si è saldata con l’equivalente “corrispondenza d’amorosi sensi” di una classe politica collusa, in un equilibrio che con pochi adattamenti ha consentito a tutti i principali protagonisti di attraversare pressoché incolumi l’emergenza giudiziaria degli anni ’90.
Non finiscono qui le innovazioni del “modello-Mose”. Non un arrembaggio disordinato, ma una gestione scientifica, ordinata ed equanime – grazie alla vocazione bipartisan – dell’enorme rendita prodotta dalla corruzione e ripartita tra pochi. Secondo la banale aritmetica della corruzione a fronte di una tangente intorno al 4 per cento del prezzo le opere pubbliche finiscono per costare almeno il 40 per cento in più. Dunque gli “almeno 25 milioni di euro” di fondi neri che secondo i magistrati veneziani sono transitati con sofisticate partite di giro in conti cifrati, per poi confluire nelle tasche dei molti beneficiari, hanno generato un extra-costo prelevato dai bilanci pubblici di circa 250 milioni di euro. Certo, una simile abbuffata tra tanti protagonisti può suscitare tentazioni, e dunque richiede disciplina e “correttezza”. E allora arrivano le tecniche di pagamento di politici da un lato, magistrati della corte dei conti, generali della guardia di finanza, persino agenti dei servizi segreti dall’altro. I primi, dal livello nazional-ministeriale giù giù fino a quello regionale e comunale, garantiscono un “governo multi-livello” della corruzione – speculare alla composizione del Comitatone che avrebbe dovuto pianificare e controllare le attività del Consorzio; i secondi forniscono invece servizi “spionistici” di informazione sui progressi delle inchieste, e una generale salvaguardia da intoppi procedurali. Ma tutti sono a libro paga: non tangenti occasionali dunque, nessuna contropartita specifica di favori, molto meglio “stipendio” annuale da riutilizzare a loro piacimento (campagne elettorali così come ristrutturazione di ville), e in virtù del quale i corruttori possono contare su di loro per “risolvere problemi” in un esteso arco temporale, quale che sia l’incarico ricoperto – e viste le loro disponibilità economiche addizionali, un’ascesa a più alti incarichi non è da escludere. Ma i finanziamenti illeciti, talvolta prezzo della corruzione, rafforzano il collante interno delle numerose “molecole” di malaffare: la ricattabilità dei destinatari. Per questo motivo scopriremo a breve se e quanto in alto i fondi neri circolassero nei partiti, e quanto estesi il potere di ricatto e la rete di connivenza che hanno generato: non tanto seguendo gli sviluppo delle inchieste veneziane, quanto l’iter del nuovo disegno di legge anticorruzione che da settimane langue in Parlamento.