Dunque pare non ci sia ormai appalto in Italia che non contempli robuste mazzette. La tentazione è quella di scaricare la rabbia collettiva ancora una volta sulla classe politica sperando che arrivi finalmente il giustiziere salvifico.
Vi è tuttavia una caratteristica della politica italiana: tutti i movimenti palingenetici che da 25 anni a questa parte si sono prefissi di cambiare l’Italia hanno avuto leader che prima o dopo sono stati in aule giudiziarie e comunque hanno avuto chi più chi meno problemi di trasparenza. Ma è veramente colpa della politica? Ho constatato che i politici più votati erano spesso anche quelli, prima o dopo le elezioni, più inquisiti: non credo che chi li abbia votati si sia posto il problema della loro moralità, anzi ho il sospetto che siano stati votati proprio per la loro disinvolta “disponibilità”.
In verità non c’è categoria che si salvi: una recente indagine giudiziaria ha coinvolto quasi un centinaio di professori universitari, lo scandalo Expo ha confermato che primari ospedalieri si diventa sovente grazie ad una raccomandazione, una inchiesta dell’Espresso ha denunciato l’alto tasso di corruzione fra i magistrati. Abbiamo del resto il più alto tasso di evasione fiscale fra i Paesi Ocse. Ma se andiamo a osservare più attentamente siamo anche il paese dove la gente più facilmente passa in auto con il rosso e passare con il rosso non è meno grave che prendere una tangente, perché si rischia di ammazzare qualcuno. I danni cagionati dai cosiddetti taggers al patrimonio pubblico e privato di Milano ammontano ogni anno a circa 100 milioni di euro, eppure molti li difendono e pochi li contrastano. Ma l’immagine più plasticamente significativa del nostro Paese è quella dell’automobilista che all’incrocio, quando davanti la circolazione è bloccata, e sta per scattare il rosso, getta l’auto oltre l’ostacolo e crea così colonne inenarrabili di traffico. Ormai è chiaro che le grandi inchieste giudiziarie servono a poco: Tangentopoli ha avuto una infinità di repliche.
Credo che dovremmo ognuno fare innanzitutto una riflessione senza facili scorciatoie. Tito Livio diceva che i Greci ammiravano l’uomo furbo, i Romani quello di buona fede. Ecco, noi abbiamo preso a modello l’insegnamento greco e dimenticato quello romano. Vi è una differenza curiosa fra Italia e Nord Europa: se entrate in una casa anglosassone sarete spesso sorpresi dal disordine e dalla sciatteria, le abitazioni italiane sono sempre linde e ben tenute, il contrario avviene nelle strade e nei parchi pubblici. Nelle famiglie italiane si insegna ai figli come farsi largo nella vita per affermare se stessi a scapito degli altri. Le scuole non insegnano il disprezzo verso la furbizia. Morale noi siamo un paese di furbi e di navigatori dove l’ingenuo ha sempre una connotazione negativa: accà nisciuno è fesso. Poi, certo, ci vuole probabilmente meno pubblico, meno prescrizioni, perché più prescrizioni detti e più induci a violarle, e tuttavia le regole se le metti vanno poi fatte rispettare; ci vuole più certezza della pena e nel contempo meno diritto penale per evitare che la giustizia penale si debba occupare anche “de minimis” e ci vuole più certezza del diritto e della sua interpretazione perché talvolta diventa illecito anche ciò che sembra lecito e viceversa. Ma senza una profonda autocritica che riveda le basi culturali su cui si fonda il nostro stare insieme rischiamo di aspettare sempre l’uomo della Provvidenza di turno, che probabilmente sarà il primo a farsi gli affari suoi.
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