Il curatore Rem Koolhass ha scelto un nome emblematico: Fundalmentals. Dopo decenni in cui l’architettura si è sbilanciata verso il futuro, il messaggio ora è ripartire dalle basi: porte, maniglie, finestre, balconi, bagni, etc. Ma non senza un po’ di effetti speciali
La 14° Biennale di Architettura di Venezia, inaugurata oggi per il pubblico, rispetta la promessa del suo Presidente, Paolo Baratta, e segna un’edizione destinata a essere ricordata. Ovviamente per i fatti di cronaca che turbano la Serenissima, ma anche per le interessanti differenze con le Biennali celebrate fin qui. Con l’intelligenza un po’ ‘paracula’ e radicale che lo contraddistingue, il curatore Rem Koolhass ha chiamato questa Biennale Fundalmentals, come se dopo decenni in cui l’architettura si è sbilanciata, nel bene o molto più spesso nel male, a progettare il futuro, il messaggio ora fosse ripartire dalle basi (“Elements of Architecture”), con cui si intende letteralmente: porte, maniglie, finestre, balconi, bagni, etc. Ma non senza un po’ di effetti speciali.
La prima novità è che finalmente la nomina del curatore era stata annunciata con un relativo anticipo (rispetto agli altri anni ma anche rispetto a quella del Padiglione Italia, puntualmente scelto all’ultimo), utile a preparare l’orchestra che quest’anno – seconda novità – comprende anche le Biennali di danza, musica e cinema, in una composizione corale per adesso riuscita, almeno nell’impatto polidisciplina che accoglie il pubblico alle Corderie. Un altro fattore di novità sta nel tentativo di tenere finalmente insieme i padiglioni dei diversi paesi, ospitati quest’anno attorno a un unico tema, il proprio rapporto con la modernità (“Absorbing Modernity 1914-2014”). I risultati ovviamente sono affidati alla sensibilità, l’acume e la pertinenza sviluppata dai singoli, ma questo salto dagli stand degli ego nazionali a un tema portante generale, andava progettato.
Infine, ecco la novità forse più importante: una mostra che – salvo smentite – probabilmente piacerà di più al pubblico che non agli architetti di mestiere. E, in effetti, in questa mostra ci sono pochissimi dei nomi dei soliti conosciuti a cui ci hanno abituato le edizioni precedenti, benché ci siano molti più paesi ospitati del solito. Così l’unico nome che emerge e risuona è il suo, quello di Rem Koolhass, per autodichiarazione un “non architetto” che qui torna a far parlare l’architettura (comunque per bocca sua) al posto dei suoi professionisti. I capitoli della storia sono fin troppo leggibili e hanno uno sviluppo verticale, da inventario, e un andamento orizzontale da storia. Alla fine li metti insieme e ne esce una specie di enciclopedia per fascicoli, come bene rappresentato dal progetto grafico del catalogo di Irma Boom per Marsilio: un cofanetto che sembra la casa a puntate, ma in versione colta, per maestri più che per arredatrici.
Mentre da questa parte (i Giardini) l’architettura è archivio e sostanza, dall’altra (Arsenale) architettura è performance e ricerca, di nuovo sviluppata in tanti casi da non architetti e di nuovo tenuta insieme da Koolhass. Qui il “fundamental” è l’Italia, anzi “Monditalia” come hanno deciso di chiamare la collezione di 41 tesi che ritraggano il nostro paese dal Mediterraneo alle Alpi. E, per dirla tutta, un po’ anche Mondo- Milano considerata la metà italiana dei ricercatori che in tanti, ma non tutti, i casi ruotano intorno all’epicentro milanese dei giovani studi di grafica, architettura. A latere invece la storia d’Italia scorre scandita per geografie, attraverso 82 film collocati secondo la latitudine delle città che ritraggono. Con alcuni risultati molto interessanti e potabili per pubblici diversi (tra gli italiani: “Urbs Oblivionalis” di Roberto Zancan ed Elena Pizziroli sulle lapidi e i monumenti urbani con cui fa i conti l’Italia delle stragi, “Z! Zingonia mon amour” di Argot ou la Maison Mobile sulla città utopica creata ai confini di Bergamo negli anni ‘60, “Countryside worship” di Matilde Cassani sul paesaggio umano creato dalle folle dei sikh durante la celebrazione dei culti, “Nightswimming” di Giovanna Silva sul fenomeno del clubbing e “Business of people” di Ramak Fazel e Francesca Picchi, tra gli altri, sull’industria come mosaico di condizioni umane) ne esce una sorta di grande inchiesta su malattie, sprechi, decadenza, occasioni mancate, fallimenti, rovine, poche eccellenze sparse e poi una specie di redenzione finale nel magnifico Padiglione italiano dedicato da Cino Zucchi al tema “Innesti/grafting”. Alla fine sembra quasi una beffa – o una nemesi – che la vicenda Mose, per coincidenza temporale, non abbia fatto in tempo a essere risolta in questa grande seduta di psicanalisi italiana.