Il blog di Michelle Bonev, la “grande accusatrice” di Francesca Pascale, padrona di dudù e fidanzata dell’ex Cavalier Berlusconi è stato sequestrato per ordine della Procura della Repubblica di Roma.

La Bonev, secondo la querela presentata dalla Pascale sarebbe rea di averne offeso la reputazione ed averla indotta in uno stato di stress post-traumatico per aver ripetutamente dichiarato che la relazione che la lega a Silvio Berlusconi sarebbe una messa in scena stante la propensione che la padrona di Dudù avrebbe per le donne e stanti alcune “confessioni” che l’ex Cavaliere avrebbe fatto, in passato, proprio alla Bonev sul conto della stessa Pascale.

Non è, tuttavia, questa la storia che merita di essere raccontata giacché dovrebbe già far riflettere che della vicenda abbiano finito con il doversi occupare giudici e pubblici ministeri che, probabilmente, in un momento come questo, avrebbero altro a cui pensare.

La storia che, invece, merita di essere raccontata – ignorando volutamente il contesto e le protagoniste femminili ed il pur “eccellente” protagonista maschile e resistendo alla tentazione di lasciarsi risucchiare dal vortice del gossip – è un’altra e riguarda, purtroppo, ancora una volta, la scarsa considerazione che, della libertà di manifestazione del pensiero, specie online, sembra esserci nei tribunali, complici, evidentemente, Leggi che garantiscono assai di più chi vuole che altri tacciano, rispetto a chi, invece, vorrebbe esercitare il suo sacrosanto diritto di parola, anche sul web, salvo, ovviamente, rispondere di ogni eventuale abuso.

Ma stiamo ai fatti.

Nei giorni scorsi la polizia postale ha chiesto alla Bonev di oscurare tutto il suo blog in esecuzione di un provvedimento di sequestro preventivo emesso lo scorso 3 giugno dal Giudice per le indagini preliminari della Procura della Repubblica di Roma nell’ambito dell’inchiesta che vede la Bonev sul banco degli imputati per aver diffamato e perseguitato la Pascale.

La lettura del provvedimento di sequestro lascia – a prescindere da ogni considerazione sul merito della vicenda – senza parole.

Il Giudice, infatti, mette nero su bianco, che la Bonev, negli ultimi mesi avrebbe – ammesso che le accuse della Pascale risulteranno provate e confermate all’esito del processo – diffamato e offeso quest’ultima attraverso interviste in tv e sui giornali, pubblicazioni sui social network e, tra l’altro, tre post, sul suo blog, che vengono addirittura citati per data.

Una ricostruzione dei fatti puntuale e ineccepibile – sempre a prescindere da ogni considerazione sul merito della vicenda che qui non rileva – che, tuttavia, si conclude con un’affermazione giuridicamente aberrante e democraticamente insostenibile secondo la quale giacché il blog in questione sarebbe utilizzato “prevalentemente ed allo scopo pressoché esclusivo di commettere i reati in contestazione”, la richiesta del pubblico ministero di disporne il sequestro integrale anziché quello “dei singoli articoli” [n.d.r. considerati diffamatori], meriterebbe di essere accolta.

Inutile, qui, attardarsi in sofisticate elucubrazioni di diritto sulla legittimità o meno del provvedimento adottato dal Giudice che, pure, la Bonev, se vorrà, potrà, naturalmente, far valere contestando la sproporzionalità e l’abnormità di un provvedimento che per impedirle di continuare a diffamare la Pascale attraverso tre post – sempre ammesso che siano effettivamente diffamatori – le “imbavaglia” un intero blog.

Il punto è, invece, domandarsi se sia accettabile che le parole ed i pensieri che ciascuno di noi affida al suo blog, valgano così poco da poter essere cancellate pur se lecite, solo perché scritte sullo stesso muro sul quale, forse, ne sono state scritte altre illecite e diffamatorie. 

Nel suo blog, infatti, la Bonev pubblicava una serie di contenuti – testuali, fotografici ed audiovisivi – relativi ad altrettante iniziative, in alcuni casi anche di rilievo sociale, che nulla hanno a che fare con la vicenda oggetto dell’indagine della Procura della Repubblica e che, tuttavia, oggi si ritrovano “oscurati”, al pari della manciata di contenuti attraverso i quali, a leggere il provvedimento, almeno secondo il Giudice, si sarebbe offesa la reputazione della Pascale.

Il giudizio di irrilevanza di tali contenutiti rispetto a quello di “prevalenza” di quelli, forse diffamatori, posto a base dell’ordine di sequestro lascia attoniti.

Come si fa a scrivere, davanti ad un blog, in cui una persona racconta di sé, del proprio impegno sociale, di alcune storie di disagio e povertà, della sua carriera e della sua attività commerciale che si tratterebbe “prevalentemente” di un mezzo per diffamare qualcuno e che tanto basterebbe a giustificarne l’integrale oscuramento preventivo?

Non basta – e, forse, sarebbe persino più grave – obiettare che si trattava di questioni di poco conto, di contorno o di scarsa rilevanza o che la Bonev, in fondo, è “solo” una “pentita” che in passato ha beneficiato di un mondo e di un sistema che ora denuncia.

Oggi è toccato al blog di Michelle Bonev ma domani, lo stesso principio, potrebbe essere applicato a quello di chiunque altro e, poi, la libertà di parola – come ogni altra libertà costituzionale – non vale di più o di meno a seconda chi ne sia il titolare e chi sia ad essere privato del diritto ad esercitarla.

Possibile che, in Italia, oggi, la libertà di parola sul web valga così poco? 

Perché nel bilanciamento tra la libertà di un imputato per diffamazione di continuare a parlare, a mezzo web, di altro rispetto ai fatti all’origine del procedimento penale e l’esigenza di proteggere gli interessi di una persona che si sente diffamata da taluni contenuti, la seconda prevale a tal punto sulla prima che non ci si accontenta di cancellare dal web solo i contenuti che si ritengono diffamatori ma ci si spinge a fare tabula rasa di ogni traccia dell’altrui libertà di parola?

E non mi si dica che chiudere un intero blog serve a impedire a qualcuno – ammesso che lo voglia e che lo abbia sin li fatto davvero – di continuare a diffamare o offendere qualcun altro, perché nell’era del web liquido e 2.0, le parole sono, per fortuna, come l’acqua del mare o di un fiume in piena: per quanti ostacoli si possa cercare di mettere al loro impetuoso scorrere, troveranno sempre un rivolo, un torrente, un bacino attraverso il quale passare per arrivare a destinazione.

Provvedimenti come questo appaiono per un verso inutili e, per altro verso, rivelatori di un approccio culturale alla libertà di manifestazione del pensiero, purtroppo, preoccupante.

Il sospetto – ma forse si dovrebbe dire la certezza – infatti, è che quella che ha per sfondo una vicenda tra protagonisti “eccellenti”  – o, almeno, noti alle cronache – costituisca, purtroppo, l’ennesima brutta storia italiana nella quale leggi ed Autorità danno vita ad una miscela esplosiva per effetto della quale ciò che è tecnicamente possibile – e magari anche facile [ndr come chiudere un blog] – viene considerato anche giuridicamente legittimo e democraticamente sostenibile, a costo di sacrificare l’altrui libertà di parola.

C’è, infatti, una sottile linea rossa che unisce i provvedimenti di sequestro di interi blog come quello della Bonev, le inibitorie all’accesso di interi siti Internet con i quali l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni tutela il diritto d’autore, le centinaia di migliaia intercettazioni cui giudici e forze dell’ordine procedono ogni anno e, ora, anche le decine di migliaia di richieste di disindicizzazione con le quali chiunque può chiedere ai grandi motori di ricerca di “riscrivere la storia”, a tutela della propria privacy.

Ha ragione Stefano Rodotà, serve – e di corsa – una costituzione per Internet che sancisca i diritti fondamentali di cittadinanza digitale

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