Non pochi (direi, anzi, tutti coloro che hanno occhi per vedere) vanno da tempo sostenendo, con eccellenti argomentazioni, che nel Venezuela bolivariano (o, più propriamente, ‘chavista’) lo stato di diritto è ormai bell’e morto e sepolto, ucciso da un potere politico che manipola la legge a suo piacimento. Ed anch’io ho in più occasioni, fatti alla mano, sostenuto (vedi qui, qui e qui) quest’ormai piuttosto ovvia verità. Molto più esatto sarebbe tuttavia affermare che, in realtà, quest’indisputabile ‘diritticidio’ non si presenta nelle vesti d’un unico e traumatico evento, bensì in forma continuata e pressoché quotidiana, lungo il filo d’un tragicomico ed ininterrotto paradosso. In sostanza: nella Venezuela chavista lo stato di diritto è davvero morto da tempo (morto ammazzato), ma la necessità di dissimulare la sua permanenza in vita costringe il regime a ‘ri-ucciderlo’ ogni giorno. Il tutto con effetti immancabilmente raccapriccianti e, al tempo stesso, farseschi. Un po’, per intenderci, come accadeva in quel vecchio ed esilarante film che, mi par di ricordare, s’intitolava “In vacanza col morto”.
L’ultima replica di questo ‘assassinio permanente’ (o di questa pagliaccesca simulazione di legalità) è quella offerta dal lungo testo della sentenza che – al termine di un’indagine dai suoi autori senza esitazioni definita ‘esaustiva, minuziosa, oggettiva ed imparziale’ – di fatto rinvia a giudizio (decretandone la permanenza in un carcere militare) del leader dell’opposizione Leopoldo López, auto-consegnatosi alla giustizia lo scorso 18 di febbraio, dopo che contro di lui era stato emesso un ordine di arresto a seguito d’una manifestazione organizzata qualche giorno prima, il 12 di febbraio.
Breve riassunto delle precedenti puntate. Il 12 febbraio un corteo di studenti era pacificamente sfilato fino alla sede della della Fiscalía per chiedere la liberazione di alcuni studenti arrestati in quel di Táchira, a seguito d’una protesta. López aveva aderito a quella manifestazione ed aveva apertamente sostenuto in discorsi ed interviste (nonché, ovviamente, nelle ormai immancabili ‘reti sociali’) che quel corteo doveva essere l’inizio d’una campagna di protesta politica nelle piazze – da lui chiamata ‘La Salida’, l’uscita – tesa a provocare la caduta d’un governo giudicato oppressivo, corrotto ed illegittimo, incapace di rispettare la democrazia e di risolvere i sempre più gravi problemi economici e sociali del paese. Dopo avere, invano, cercato di consegnare un documento alla Fiscal, Luisa Ortega Díaz, quella manifestazione s’era sciolta, su invito dei suoi organizzatori, così come s’era svolta. Vale a dire: pacificamente. Ma, come non di rado accade in ogni latitudine, a manifestazione disciolta, alcuni gruppi avevano provocato violenti disordini, con lanci di bombe incendiarie e sassi contro la sede della Fiscalia, e con il tragico bilancio finale di tre morti (tutte – dettaglio, questo, tutt’altro che secondario – provocate colpi d’arma fuoco sparati a freddo da agenti del SEBIN, Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional, presenti in piazza).
Dunque: per quali reati Leopoldo López è stato rinviato a giudizio? Il documento li indica nel seguente ordine: incendio, istigazione a delinquere, danni alla pubblica proprietà, associazione a delinquere (una somma di delitti che vale 10 anni di cari carcere). E su quali fatti, par lecito chiedersi, si basano queste imputazioni? Nessuno. Nessun fatto perché – come risulta da tutte le testimonianze – López già aveva abbandonato la piazza quando i disordini sono scoppiati. Nessun fatto ed anche nessuna parola, perché, prima di abbandonare la piazza, López aveva invitato i manifestanti a tornare pacificamente a casa, annunciando una nuova manifestazione per il giorno successivo…E allora?
Semplicissima – anche se illustrata con grotteschi arzigogoli pseudo-giuridici e pseudo-scientifici – è la risposta. Come brillantemente spiegano gli autori nelle oltre 200 pagine del loro implacabile ‘j’accuse’, Leopoldo López è colpevole non per quello che ha fatto o detto, ma per quello che ha lasciato intendere in forma ‘subliminale’ nei suoi discorsi e nelle sue interviste.
La parte centrale del documento d’accusa è, infatti, quella dedicata alla ‘analisi semantica’ di quattro ‘testi’, tra discorsi ed interviste, attribuiti a López. E questa – non per caso l’unica riportata in maiuscolo – è, di gran lunga, la più incriminante tra le frasi pronunciate dal reo: ‘Tenemos que salir a conquistar la democracia’, dobbiamo scendere in piazza per conquistare la democrazia. In sostanza: dato che possiede un ‘ethos politico’ capace di influenzare i suoi ascoltatori, e dato che va ribadendo il concetto della non-democraticità del governo in carica – fatto questo che ‘rompe’, secondo gli autori, l’ordine costituzionale – Leopoldo López non può che essere considerato l’istigatore d’ogni reato commesso ai margini delle manifestazioni di protesta. E questo anche nel caso che i suoi discorsi abbiano, se letteralmente interpretati, invitato a non commettere alcuna violenza. Illuminante, a tal proposito, questo passaggio del documento: ‘…occorre mettere in rilievo…che non è sufficiente annunciare che quello che si fa non è violento, se non c’è un correlato discorsivo, prosodico (sic) e nei fatti che lo dimostri…”. Insomma: López può dire quel che gli pare. Ma se parla male del governo, per noi è comunque colpevole…
State ridendo o state piangendo? Non so voi, ma io ho appena finito d’asciugarmi gli occhi. E ancora devo capire se sono lacrime di riso o di pianto…