“Faremo come a Parma” motteggiavano i Cinque Stelle a Livorno. E in effetti nel tagadà del ballottaggio il meccanismo della sfida finale è stato lo stesso: il Pd aveva preso il doppio dei voti dei grillini e ora si ritrova con 7 consiglieri contro i 21 del Movimento Cinque Stelle che senza apparentamenti ha ribaltato tutto. E i toni sono quelli del successo quasi insperato di Federico Pizzarotti: lui voleva fermare l’inceneritore, il collega Filippo Nogarin vuole fermare il nuovo ospedale di Livorno e un nuovo complesso edilizio in centro. Com’è finita la storia dell’inceneritore è noto, ci sarà da aspettare per vedere come la prima guida non di sinistra della città toscana bloccherà gli iter di alcuni progetti già avviati.
Ma in principio fu Bologna, Guazzaloca, la Waterloo degli allora Democratici di sinistra. Sono due storie molto diverse per molti aspetti, quelle di Livorno e di Bologna. Resta in comune la caduta di un simbolo. In Toscana il successo del M5s è fondato su una sfida interna al centrosinistra (il Pd insieme alla lista di sinistra Buongiorno Livorno avrebbe raggiunto il 57%) nel periodo di massimo splendore del Partito democratico e di difficoltà dei partiti alla sua sinistra (quasi spariti). In Emilia si pagò probabilmente anche l’effetto di una certa intolleranza ai governi nazionali (era appena diventato presidente del Consiglio Massimo D’Alema). La spiegazione comune può essere nelle parole dello stesso Giorgio Guazzaloca, il protagonista della sorprendente vittoria del 1999 “sia per la lunga egemonia del Pci che improvvisamente si sbriciola sia perché dimostrano che l’eccesso di potere alla fine se non è riformato, se i metodi non si aggiornano, non regge”. Il voto come un passaggio con l’anticalcare.
Un altro elemento è probabilmente la sensazione dentro al partito che conta di potercela fare, nonostante tutto. “Sì, è vero, abbiamo sbagliato, ma ora ripartiamo, rifondiamo tutto”. A quel punto è già troppo tardi e l’onda sta già travolgendo tutto. A Livorno è successo, lo slogan del candidato sindaco era “Punto e a capo” ed è diventato “punto e basta”. “Mica vorrete votare per un macellaio?”: dicono a Bologna che i dubbi un po’ snob della candidata Ds, Silvia Bartolini, permisero a Giorgio Guazzaloca di vincere il ballottaggio del 27 giugno 1999 travolgendo gli eredi del Pci (50,6% al secondo turno) che governavano la città da 54 anni. Un ribaltone storico per l’Italia del Dopoguerra più travolgente della Parma espugnata da Berlusconi nel 1998 e dai 5 Stelle con Pizzarotti nel 2012. L’ex bottegaio che tagliava fette di mortadella e bistecche, diventato presidente della Camera di commercio bolognese, fu la carta vincente del centrodestra berlusconiano travestito da “civico”. Presentatosi sotto le insegne di una delle primissime liste apartitiche (o civiche) per le amministrative, il macellaio più celebre della città, unì prima di tutto le anime moderate, quelle della compagine democristiana mai del tutto confluite nell’Asinello prodiano, ma ancora vicine al leader Pierferdinando Casini. Dietro di loro, di molti metri, i partiti: Forza Italia, Alleanza Nazionale e numerose sigle di destra. Per tornare a governare Bologna il partitone dovette ricorrere, 5 anni dopo, allo “straniero” Sergio Cofferati.
L’analisi di cos’è successo a Livorno è lucida: “Guardi le posso citare Montanelli che teneva un busto di Stalin in ufficio e diceva: quanti comunisti ha fatto fuori lui non ne ha fatti fuori nessuno. A parte gli scherzi penso che se Renzi fosse una soluzione per l’Italia non lo sarebbe anche per il partito”. Esiste qualche affinità tra la sua vittoria e quella dei 5 stelle a Livorno? “Nessuna. Io non andai all’avventura dicendo che erano tutti brutti e cattivi. Io non dicevo che Bologna, nel 1999 ancora una città ricca e non in declino, era da ‘cambiare’ ma che doveva ‘migliorare’. Il centrodestra a Bologna non andava oltre il 35% e con me solo tra primo e secondo turno alle amministrative del 1999 guadagnò 20mila voti in più”. Molti imputano ai 5 stelle l’inesperienza politica che li penalizza: “Posso dire che se è corroborata, paradossalmente, dalle buone intenzioni non è un male. L’esperienza si fa anche in corso d’opera”.
(ha collaborato Davide Turrini)