Per gli uomini guidati dal portoghese Carlos Queiroz il miracolo si è già compiuto: essere alla Coppa, nonostante le difficoltà economiche in cui versa il Paese e che hanno impedito alla nazionale di prepararsi in vista del torneo. La sfida adesso è passare il turno, ma in un girone con Argentina, Bosnia e Nigeria l'impresa sembra impossibile
L’avventura è iniziata a fine aprile su un campo di terra battuta di Johannesburg. Niente rigori: l’area non era tracciata e in ogni caso l’arbitro non si è fatto vivo. Assente ingiustificato, come metà del team Melli (traduzione persiana di squadra nazionale): solo undici giocatori della squadra hanno aderito al primo training camp in vista del Mondiale, tra loro nemmeno un portiere.
Non ne fu particolarmente entusiasta Carlos Queiroz. Il ct dell’Iran è un portoghese spigoloso che nella vita ha guidato Real Madrid e Portogallo e che da tre anni si ritrova a litigare con una federazione con pochi soldi e ancora meno voglia di investirli nel pallone. Uscito vittorioso dall’“inferno” della qualificazione asiatica, Queiroz ha riportato l’Iran alla Coppa dopo 8 anni. Poi, mentre le altre squadre facevano il rodaggio in giro per il mondo, l’Iran non vedeva più il campo. Fino a marzo non ha effettuato test amichevoli. Ora ne sta infilando uno dopo l’altro, ma i pareggi con Bielorussia, Montenegro e Angola e la sconfitta con la Guinea non rappresentano i migliori auspici in vista delle sfide con Argentina, Bosnia e Nigeria. Le big del calcio mondiale hanno rifiutato tutti gli inviti a organizzare un match per non dimostrare vicinanza a uno “stato canaglia”, ma soprattutto perché Teheran non sovvenzionava le trasferte. La situazione economica nella repubblica islamica non aiuta certo lo sport. Nonostante le riserve energetiche, l’Iran sta vivendo una crisi drammatica. Il paese ha attraversato una lunga fase di recessione, la disoccupazione è alle stelle, in molte zone mancano viveri e medicine. Una situazione dovuta all’embargo della comunità internazionale contro il programma nucleare iraniano.
In questo contesto, la scorsa settimana i giocatori hanno baciato il Corano dalle mani della loro guida spirituale e si sono imbarcati sull’aereo per il Brasile. Ognuno di loro, ha riportato la stampa locale, aveva in valigia una sola muta per giocare: l’Iran non si può permettere nemmeno un cambio di magliette per la spedizione sudamericana. Chi dovesse perderla o avesse la malaugurata idea di regalarla, la partita successiva rimarrà in tribuna. Anche la qualità dei tessuti lascia a desiderare: il portiere di riserva Haghighi ha fatto sapere che dopo un lavaggio la sua t-shirt è passata da un XL a una XXXL.
La feroce spending review ha mandato su tutte le furie mister Queiroz, che lamenta la poca serietà da parte della federazione iraniana. “Non aspettatevi molto da noi” ha messo le mani avanti. Non ha tutti i torti: per mesi i club del paese si sono rifiutati di concedere i loro atleti e la federazione non ha detto nulla. Il ct di Nampula, in Mozambico, è stato osteggiato in ogni modo anche nel suo tentativo di fare scouting tra gli iraniani nel mondo. Gli otto convocati che provengono da campionati esteri sono un record, ma a fare discutere sono state sopratutto le convocazioni dei ragazzi di origini iraniane nati all’estero. “Non posso vincere senza di loro” ha detto tempo fa Queiroz. Alla fine l’ha spuntata lui e faranno parte della lista dei 23 Ashkan Dejagah, attaccante del Fulham che aveva fatto il suo esordio in campo internazionale con le selezioni giovanili tedesche e Reza Ghoochannejhad. Anche lui è un attaccante e gioca nel Charlton. Quando era bambino i suoi emigrarono in Olanda e lui debuttò con l’Under 19 orange.
Il pressing di Queiroz e la prospettiva del mondiale in Brasile lo hanno convinto a scegliere l’Iran. Ancora più curiosa è la storia di Steven Beitashour: nato in California da un ingegnere elettronico, gioca con i Whitecaps di Vancouver. Le buone prestazioni nella Mls, la lega che riunisce i club di Stati Uniti e Canada, gli erano valse due convocazioni con la nazionale a stelle e strisce, ma nessun ingresso in campo. Lui ha deciso di salutare il “grande Satana” (così l’ayatollah Khomeini chiamò l’America nel 1979) e accettare la convocazione di Teheran.
E’ a loro che il team Melli dovrà affidarsi, ora che non può più contare sulle stelle Ali Daei o Mahdavikia. Queiroz non ha fatto caso ai soprannomi altisonanti e ha lasciato a casa Sardar Azmoun, 19enne detto il Messi iraniano. E soprattutto Ali Karimi, il Maradona d’Asia, un passato al Bayern Monaco e centinaia di presenze in nazionale. L’attempato trequartista è considerato una specie di rivoluzionario in patria: anni fa, durante i giorni della protesta contro Ahmadinejad, scese in campo con il braccialetto verde caro alla piazza e successivamente fu sospeso dal suo club per non aver rispettato il Ramadan. Ci sarà invece un altro contestatore: Javad Nekouman, centrocampista goleador che gioca in Kuwait, è il capitano della squadra. A 33 anni è il faro del gioco iraniano: il suo appoggio alle manifestazioni non è stato un motivo sufficiente per spegnere la luce.