Anche in questo caso a comandare è la retorica. Quella pelosa e sterile dei convegni istituzionali. Per cui del Po si può parlare per presentare dati e statistiche buoni per chi le fa e ci campa. Che non cambiano la sostanza, ed anzi lo allontanano sempre di più dalle comunità che ci vivono a un passo, oltre arginature sempre più alte e inaccessibili. Il Po è la latrina in cui versare i nostri scarti e bisogni, è la cartolina buona per raccontare storie di una storia che non c’è più. E’ l’esempio vivente di un fallimento. Il nostro. Che è fallimento collettivo. Di rimozione. E di abuso. Di un modello di sviluppo che usa e consuma tutto, calpesta, travolge. Uccide.
Anche nel resto d’Europa i grandi fiumi sono più o meno inquinati, e in fondo non è questo l’aspetto più incredibile e assurdo di questa vicenda. Ma la dimenticanza, appunto. Il fatto che il Po sia sostanzialmente confinato in un angolo remotissimo del nostro essere comunità, anche laddove il Po è attraversamento, ponte tra una sponda e l’altra. Questo produce un miracolo al contrario che fa del Po un abuso quotidiano e silenzioso, nell’indifferenza collettiva.
Ma il Po potrebbe essere la più stupenda e grande opera su cui costruire il corpo di un’Italia nuova. Il Po, i nostri reni, e noi i remi da far forza verso un’altra direzione. In “Morimondo” Paolo Rumiz scrive una pagina memorabile sul grande fiume, che vi consegno con ammirazione.
“Vennero gli uomini, poi le legioni, e le legioni vollero governare quel mondo dove terra e acqua si ibridavano instancabilmente. Lo tagliarono ad angoli retti, lo bonificarono, individuarono i punti più adatti al guado e al traghetto. Ci provarono anche monaci costruttori di abbazie, che deviarono la corrente per scoprire terre fertili. Ma il grande monosillabo non si faceva comandare e cambiava strada egualmente, tracimava, si divideva, rompeva gli argini, interrava ricchissimi porti, cambiava foce, lasciava negli annali memorie catastrofiche chiamate “rotte”, che ancora oggi i popoli del fiume ricordano segnandosi e che portano il nome di Ficarolo, Sermide, Guastalla.
Poi furono eretti argini e aperti canali, si costruirono fabbriche, ci furono proteste e repressioni, infine la guerra. E venne il giorno in cui tanti smisero di zappare e provarono schifo per il sudore della fronte. I torrenti si svuotarono e i mille rivoli del fiume divennero un canalone e uno scolo; l’aria diventò veleno, i villaggi sui monti furono abbandonati come per una pestilenza, gli uccelli migratori sbagliarono stagione e gli orsi non andarono più in letargo.
Venne anche il tempo in cui gli uomini divennero sordi a tutto questo, perché avevano già dimenticato l’erba, le piante e gli animali con cui erano vissuti per millenni. Tacquero, per la vergogna di ammettere che tutto era già successo e non avevano fatto niente per impedirlo.
Eppure il fiume andava, era lì davanti ai miei occhi, carico di forza battesimale e rigeneratrice, in mezzo a tutto questo. Si faceva carico dei nostri veleni e della nostra imbecillità. Era insieme pazienza e furia vendicatrice. Rinasceva dopo ogni magra e ogni catastrofica piena. Sui suoi argini sentivo ancora fisarmoniche e vedevo nonni prendere i nipoti per mano e dir loro: ecco, questo è il tuo fiume.”