La scena che si ripete ogni anno sul palcoscenico del premio letterario più noto d’Italia è questa: prima, si annuncia la dozzina di semi-finalisti, dove si possono comodamente far entrare, insieme ai pochi che formano lo zoccolo duro dei grandi editori, anche i piccoli, così come gli autori esordienti e persino, come quest’anno, una graphic novel, come La storia di Gipi. Una concessione utile a dare un’idea di rinnovamento al premio, rafforzata dai piccoli cambiamenti – quest’anno il voto elettronico dei giurati, in teoria più trasparente, l’anno scorso l’entrata dei voti collettivi delle scuole – piccoli segnali che però, per lo più, rappresentano dei palliativi rispetto al sistema dominante (Gli Amici della Domenica sono quattrocento, gli altri voti di librerie indipendenti, Istituti di cultura all’estero e scuole sessanta).
E allora ci si potrà anche affannare a dire che il premio si rinnova, è più trasparente, perché da quest’anno i giudici possono votare nel segreto dell’urna digitale, senza portare il loro pacchetto di voti all’editore: ma se davvero le cose fossero cambiate, come mai ieri sera alla Fondazione Bellonci a Roma, in una serata rarefatta e un po’ stanca – stando il Premio strega alla cultura come le larghe intese alla politica non era chiaro se era meglio farsi vedere o no, visto il vento renziano – i titoli entrati in cinquina sono esattamente quelli che si aspettava, al di là dell’ordine di arrivo rispetto al numero di voti (che però prima della finale poco significa: per ora sono tutti vicini, a dimostrazione che i giochi si faranno poi)? Come mai, cioè, alla fine arrivano in serata finale: Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella (Feltrinelli), vincitore qualche giorno fa della prima edizione del Premio Strega Giovani, con 57 voti: buon esempio, anche commovente, di docufiction, ma nulla di più; Il padre infedele di Antonio Scurati (Bompiani) con 55 voti, titolo rappresentante dell’editore Rizzoli che quest’anno secondo l’arcinota legge dell’alternanza dovrebbe accontentarsi del secondo posto (avendo vinto l’anno scorso Walter Siti, della stessa scuderia): libro modesto che racconta di un padre fedifrago; Il desiderio di essere come tutti, di Francesco Piccolo (Einaudi) con 49 voti, sul quale ho detto la mia così tante volte che oggi taccio per scriverne quando, con tutta probabilità e salvo sorprese che questo premio quasi mai riserva, vincerà questa edizione, grazie anche alla confluenza dei voti dell’altro titolo Mondadori in cinquina, Lisario o il piacere infinito delle donne, di Antonella Cilento (46 voti); infine il romanzo La vita in tempo di Pace, di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie), che se la competizione fosse reale e basata sul valore dovrebbe avere la vittoria assicurata.
Insomma lo Strega – e insieme a lui la cultura italiana, anch’essa una casta che però subisce meno strali di quella politica – resta ancora oggi lo specchio del paese. Dove, e a maggior ragione in tempi di vacche magre, oggi un titolo che vendeva cinque anni fa trentamila copie può precipitare a cinquemila, chi è al potere si accorda, invece che competere, per spartire i benefici. Mentre tutti gli altri si accodano, accettano di partecipare – come nel caso dei piccoli editori – nella speranza che qualcosa cambi e perché comunque un po’ di visibilità è meglio di niente. Così oggi: il poteri forti restano forti, perché anche se un po’ incalzati dal soffio della rivoluzione intendono lottare fino all’ultimo prima di cedere i privilegi. I poteri deboli – talvolta anche loro espressione di lobby, anche se piccole – rivendicano il loro turno. Gli altri, ad esempio tutti quelli che, silenziosamente, vorrebbero vivere di scrittura o di cultura, pur senza un cognome forte o amicizie varie, si trovano di fronte un mondo editoriale desertificato tra crisi economica e cartelli di vario tipo.
Se poi il governo che porta avanti la bandiera del nuovo (lo aveva fatto anche il governo Letta, annunciando la rivoluzione della detrazione delle spese per i libri, poi rimangiata), ci mette del suo, confermando ad esempio l’Iva al 22% per gli e-book, gli unici che potrebbero risollevare il mercato, allora il cerchio si chiude e in maniera grottesca: ma scusate gli ebook si mangiano? Servono da centrotavola? A quanto pare per Renzi e i suoi ministri sì.