Ma l’idea che Le tribolazioni del filosofare precorra e non segua la Commedia è fondata su incontestabili evidenze critiche. Su alcuni punti, ad esempio, il testo di Dante e quello dell’anonimo paiono coincidere, ma solo apparentemente: a ben vedere, infatti, il secondo è assolutamente superiore. A questo proposito, il raffronto tra una terzina di Dante e una dell’anonimo risulterà senz’altro dirimente. Così, ad esempio, s’esprime l’Alighieri per introdurre la figura di Ugolino allorché, allontanando la bocca dalla testa che sta rosicchiando (ch’è quella, come noto, dell’arcivescovo Ruggieri), s’accinge a raccontare la sua tragica fine (Inf. XXXIII, 1-3):
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Versi dozzinali e inutilmente macabri i quali, pur di accalappiare l’interesse del lettore fanno leva sulle sue più viscerali e becere pulsioni: l’amore per l’orrido, l’inevitabile attrazione ch’ingenera tutto ciò che per sua natura è repellente e dovrebbe piuttosto disgustarci.
Tutt’altra sensibilità manifesta invece l’anonimo, che scrive (Le tribolazioni del filosofare, XVIII, 73-76):
La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendo le capella
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Che immagine sublime, che contrappasso perfetto (!): Gotescalco d’Orbais ‒ propugnatore della dottrina della doppia predestinazione e perciò stesso fustigato e condannato all’ergastolo durante il Concilio di Quierzy ‒ leva le ‘fauci’ dalla “manducata” capa di Scoto Eriugena, che di Gotescalco (“amante del putrido”) fu certo il più feroce accusatore. Le parole dell’anonimo profilano quindi con esattezza l’estenuante vendetta, insieme tragica ed altera, cui è costretto Gotescalco (il cui nome ‒ non passi inosservata l’elegante ironia dell’anonimo ‒ rimanda peraltro a chi, scalcando, è appunto alcuno che stacchi le carni dall’ossa). Sia detto poi per inciso che la lezione “forbendo le capella” è affatto preferibile rispetto alla variante, senz’altro erronea, “forbendola a’ capelli”: non è che l’antropofago dannato netti rozzamente la propria bocca sui capelli del suo “pasto”; piuttosto, con gesto umano e compassionevole, prima di rivelarsi polisce i capelli della vittima quasi volesse carezzarli.
Ma chi sono i protagonisti di questa Comedia metaphysica? Lo si sarà già capito: i filosofi coi loro errori metafisici, per i quali vengono opportunamente puniti. Impossibile elencarli tutti. Mi limito allora ad alcune categorie, come i pusillanimi della filosofia che, avvertono i curatori, “disquisirono futilmente, senza meritare né infamia né lode”, ma soprattutto “si trattennero dal fare affermazioni sostanziali”. Il poema, lo si è detto, è medievale, ma quanti ciarlatani contemporanei, filosofi per cattedra ma non per essenza, meriterebbero d’intrupparsi con questa mandra d’ignavi inconcludenti, sospesi “tra ’l dir poco e ’l dire nulla”? E come tacere degli sprovveduti fedeli alla trasparenza del linguaggio, degli scettici, dei nichilisti, dei realisti, dei dualisti del materiale e del mentale, ecc.? Per ciascuno di questi il Poeta ha predisposto un’idonea punizione: i fedeli al linguaggio, ad esempio, sono costretti ad uno sproloquio continuo; farfugliano frasi sconclusionate (“Parlar sanza chiarezza par si tratti”) rinchiusi in gabbie dal cui fondo frammenti di specchi infranti rimbalzano immagini distorte: “Cupole, gabbie, arruggini, inferrate / d’onne misura, d’onne forma e accerchi, / alcune a terra ed altre rovesciate // o accatenate a non so qual coverchi / i’ vidi. Ed a la base erano vetri / d’aguzzi e rotti ed offuscati sperchi” (VII, 55-60).
Se alcune scelte dell’anonimo sono senz’altro ineccepibili ‒ come quella che vuole cialtroni, plagiatori e adulatori tra i fraudolenti che raschiano il fondo dell’inferno (bella peraltro l’idea ‒ impudentemente rovesciata nel ghiaccio della Giudecca dantesca ‒ d’impeciare i dannati in un lago di catrame ribollente) ‒, altre però non si spiegano: perché mai i fedeli ai sensi meriterebbero più alta ‘cerchia’ che i nichilisti? E perché punire i timorosi del mutamento, se è innegabilmente vero che, al di là dell’obsoleta antitesi tra chronos e aion, è ormai acclarato che “tutto accade per la prima volta, ma in un modo eterno”? Non potendo domandarlo al Poeta dovremmo rivolgerci a Varzi e Calosi, suoi encomiabili scoliasti. Ma sarebbe altresì d’uopo chieder loro dove ritengono di dover scontare la propria pena quando, rinviati a giudizio per le proprie opere (visibili come invisibili) dovranno far ammenda e purificarsene.
[Anonimo, Le tribolazioni del filosofare. Comedia metaphysica ne la quale si tratta de li errori & de le pene de’ l’Infero, scoperta, redatta e commentata da Achille Varzi & Claudio Calosi, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. 269]