Scuola

Maturità 2014: revisionismo all’amatriciana con scorzette di limone candite – I

Bignamino propedeutico all’esame di storia del Novecento ad uso dei maturandi

Avvertenza: questo post è intriso di ironia e autoironia. Astenersi ultrà dell’interpretazione letterale

Perché tanta confusione intorno al Novecento? Perché alle superiori, per molti l’ultima occasione per apprenderne la storia, il Novecento si sfiora appena. Ai miei tempi (anni 80), era già un miracolo se i programmi arrivavano a Giolitti, poi tanto i supplenti quanto gli insegnanti di ruolo scrollavano il capo, il Novecento ve lo fate da soli, il Novecento è ora. Il Novecento è out. I più pavidi si giustificavano: il Novecento non è storia, è politica.

Ho spesso avuto il sospetto che fosse parte del piano massonico di rinascita gastroludica (panem et circenses) la strategia di tenerci ignoranti sulla storia recente, una comodità per il desonesto coverno (come diceva un bracciante siciliano analfabeta, Vincenzo Rabito, che sconfisse da solo l’analfabetismo e scrisse forse senza capirne la portata un romanzo che è anche e soprattutto una storia del Novecento, Terra matta, edito da Einaudi).

La storia è certamente storia di rapporti economici, ma i rapporti economici traducono assai spesso relazioni alimentari tra chi ha il cibo e vuole tenerselo, e chi non ce l’ha e vuole conquistarlo, qualunque sia la sua motivazione: fame (e reclamerà il pane) o potere (e reclamerà le spezie).

Nel nome del pane. Ciò premesso, vediamo come si apre il ‘900: l’anarchico Bresci uccide Umberto I. Così, d’amblé? No. Torniamo indietro di tre anni: quello del 1897 è un raccolto pessimo, da fame; e difatti nel 1898 a Milano la folla manifesta in piazza per il pane. Il generale Bava Beccaris non ha bisogno della strategia della tensione: stecchisce i manifestanti direttamente sul posto. Per il governo, i morti sono un’ottantina. Per gli altri, circa trecento. Re Umberto (e dire che voleva una monarchia illuminata!) insignisce il generale della Gran Croce dell’Ordine militare dei Savoia per i servigi resi alle istituzioni e alle civiltà. Nel 1899 il dibattito è caldo e i deputati si menano alla Camera (è dunque una tradizione di lungo corso), nella fattispecie il liberale Sonnino prende a patele il socialista Bissolati. La Camera viene chiusa a ripetizione, ma poi è chiaro che urgono nuove elezioni. Risulta molto forte una compagine formata di repubblicani, socialisti, radicali, in tutto una novantina di deputati. Del resto già l’anno prima la compagine così formata (vogliamo chiamarla progressista?) aveva vinto in diverse città.

C’è troppo odore di progressismo nell’aria: serve una bella scusa per fare marcia indietro, ed ecco che l’anarchico Bresci provvede.

La domanda è: ma quanto gli devono essere grati agli anarchici i governi che si succedono in tutto il Novecento? Da Bresci a Pinelli, voi se foste un governo gli anarchici non li mettereste a libro paga, tanto grandi sono i servigi che vi rendono fornendovi il pretesto per ristabilire ogni volta lo status quo?

Il popolo affamato fa la rivoluzione. Nel 1919 la rivoluzione viene messa ai voti. I socialisti, pur numericamente fortissimi, non si sentono pronti. Pensano di rimandare, ma non sanno, ahi loro, dove girerà il vento del prossimo ventennio. Coerentemente, dopo il primo di quella che sarà una lunga serie di sanguinosi raid fascisti, minimizzano, un po’ come Renzi & C con Jenny ‘a Carogna, per intenderci, o come D’Alema e Veltroni con quel picciottieddu di Berlusconi. Impressionante, a posteriori, il contributo della storica Rita Pavone, più nota come show girl e come interprete di Giamburrasca, all’esegesi dei fatti: «Il popolo affamato fa la rivoluzion». E noi, per tutto il Novecento, evidentemente, non abbiamo mai avuto abbastanza fame da pensare davvero di cambiare lo stato delle cose.

L’insalata non russa. Nella voluptas rinominandi degli Anni Trenta, il fascismo ribattezza l’insalata: russa? Giammai. Chi ci vede chiaro distingue senza fatica  il verde di fagiolini e piselli, il giallo delle patate, l’arancio delle carote. L’insalata del ventennio non cede alle esotiche lusinghe sovietiche, anzi, è la gustosa espressione cromatica del tricolore. E così si chiamerà: insalata tricolore. Sarà anche per questo che, finito l’incubo della guerra e del ventennio fascista, negli Anni Cinquanta non c’è rosticceria o tavola calda che non esponga in vetrina la celeberrima insalata, finalmente libera di esibire il passaporto russo.

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