Vedo Mario che si avvicina al suo amico Mattia. Si guarda intorno come per verificare che non ci siano pericoli in giro. Poi si mette una mano vicino alla bocca e sussurra qualcosa nell’orecchio di Mattia. Che ci pensa qualche istante, poi fa cenno di sì con la testa. Spalanca i suoi occhi così grandi.

Poi salutiamo Mattia e ce ne andiamo. Mentre guido, però, guardo nello specchietto retrovisore Mario nel suo seggiolino. Forse non si dovrebbe, lo so, ma proprio non riesco a liberarmi da quella curiosità: che cosa ha detto Mario. Non sembrava un segreto da poco, anche i bambini sanno dare solennità alle parole. E io l’ho vista nel gesto di Mario, nello stupore di Mattia. Alla fine provo, la prendo alla lontana: “È simpatico Mattia, vero?”. E Mario: “È il mio migliore amico”, risponde con orgoglio, adesso può dire anche lui ai fratelli, a noi, di averne uno. “Ma che cosa gli hai chiesto?”, domando pronta a cambiare discorso se Mario fosse imbarazzato.

Ma lui no, vuole dirmelo: “Gli ho chiesto se voleva essere mio amico per tutta la vita”. Pausa. “E Mattia ha risposto di sì”.

Rimango immobile, il respiro perde un po’ il ritmo. Poi riguardo Mario nello specchietto, come se mi sembrasse un po’ diverso. Chissà che cosa significa per lui la parola “vita”: forse un’eternità, forse il tempo. Forse ne intuisce in qualche modo misterioso il limite. E proprio per questo chiede a Mattia quel primo impegno, il primo di chissà quanti altri nelle loro esistenze. Dunque anche Mario, con le sue manine minuscole, con la sua maglietta da Superman, in qualche modo lo sente: il timore del distacco, dalle persone. E dalla vita. Mi chiedo se nasca dal senso del tempo o dall’affetto per una persona. Se poi sono due cose davvero distinte.

Vorrei metterlo in guardia, Mario, prepararlo, ma non so bene a cosa. E sarebbe ingiusto, quella fiducia ci permette di vivere.

Poi penso a noi grandi: alle amicizie, gli amori, i matrimoni cominciati con quella promessa: per tutta la vita. No, è assurda. Eppure deve essere parte di noi, come un istinto: cercare una compagnia che non ci abbandoni durante il viaggio. Realizzare qualcosa senza limiti, proprio perché ci sentiamo così finiti.

Il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2014

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