Vuoi cambiare verso in generale o su una questione specifica? Vuoi cambiare l’Italia? O anche l’Europa? Puoi cambiare solo la tua Regione, fermarti alla tua città, o se sei timido e modesto legare l’obiettivo al tuo circolo. È bello: si può cambiare verso a tutte le ore e in ogni modo. Il piemontese Chiamparino appena eletto governatore guarda in casa sua: “Voglio far cambiare verso al Piemonte”. Il perugino Guasticchi, appena sconfitto: “Noi dobbiamo cambiare verso all’Umbria”. Anche ad Ascoli Piceno si sono battuti per cambiare verso. Figurarsi a Roma. Noi. Quasi sempre si parte col noi. Fa comunità, democrazia, condivisione, sintesi.
Si aggiunge un vogliamo. È un verbo volitivo, positivo, intransigente e ottimista. Vogliamo cosa? Cambiare, naturalmente. Il lessico renziano è basico, è una proposizione elementare, un dispositivo multifunzione. La frase inizia nello stesso modo tutte le sante mattine, e finisce allo stesso modo ogni sera. Muta il finale per necessità ma si nota che è questione accessoria. Bisogna anzitutto cambiare. E quando Matteo parla aiuta i collaboratori a capire e a ripetere. Cosicché le parole divengono identiche, le frasi simili, il periodo ugualmente breve, svelto. Il fenomeno del copia/incolla lessicale è un altro elemento che dà velocità al mondo renziano e risolve il comando in una sola parola. Ascoltato lui è fatta. Si sa già che i collaboratori edificheranno il pensiero nello stesso modo, con la medesima postura e uguale vocabolario alla mano.
Renzi: “Siamo qui per cambiare le cose non per annunciarle”. Simona Bonafè, eurodeputata: “Siamo qui per cambiare le cose non per annunciarle”. Renzi: “Non accettiamo diritti di veto da Mi-neo”. Pina Picierno, eurodeputata: “Non accettiamo che Mineo tenga in ostaggio il partito”. Renzi: “Il partito ha discusso e votato non una ma tre volte”. Luigi Zanda, capogruppoo al Senato: “Il partito ha discusso e votato non una ma quattro volte”. Renzi: “L’Italia ci chiede di fare le riforme”. Maria Elena Boschi, ministro: “È l’Italia che ci ha chiesto di fare le riforme”. Renzi: “Abbiamo una grande responsabilità” . Alessandra Moretti, eurodeputata: “La nostra responsabilità è grandissima”. Renzi: “Il voto delle primarie è stato chiaro”. Debora Serracchiani: “Il voto delle primarie è stato chiarissimo”. Renzi dopo le europee: “Vogliamo cambiare l’Europa”. Il ministro Poletti: “Vogliamo cambiare l’Europa”.
Nel fluido cammino della lingua renziana, nella riduzione a spot del pensiero, è accaduto che si dovesse affrontare casi singoli, questioni specifiche. Era dicembre e Stefano Fassina, allora viceministro del governo Letta, si ribellò al neosegretario. “Fassina chi?”, chiese Matteo. L’interrogativo ebbe un successone. Il poveretto fu asfaltato in due giorni. Si dovette dimettere e la sua figura divenne una nebulosa, l’immagine svanì e fu dichiarato il diritto all’oblio. Adesso, con l’insubordinazione di Mineo, il rapporto di forza si è fatto spaventoso e allora Renzi nemmeno si è degnato di utilizzare la spada dell’interrogativo. Il chi? è passato nella bocca di Dario Nardella, neosindaco di Firenze. La scenetta è stata preparata con cura: fila di microfoni, domanda su Mineo, un attimo di attesa. Sorrisino anticipatore e poi bum: Mineo chi? ha risposto Nardella dileguandosi immediatamente, cosicchè l’effetto fulmine è stato ancora più devastante. Mineo è morto all’istante, bruciato da un numero due, o forse tre del partito.
La grammatica renziana è rocciosa, ma l’inchiostro è indelebile. E anche l’aritmetica ha un suo sviluppo ariginale. Ogni mese due o tre riforme, e ogni ministro ad annunciarle e a spiegarle. Ieri è toccato a Marianna Madia. La pubblica amministrazione è praticamente nuova di zecca. Date, decreti, deleghe, progetti. Un terribile universo di pensieri e opere che confluiscono nel fiume di palazzo Chigi. Ogni giorno sgorga qualcosa e si espande. Destinazione ignota.
Di Matteo ce ne era uno, da oggi due. Anche Orfini, il neo presidente dell’assemblea, un oppositore a modo, ha lo stesso nome del caro leader. Che tira il filo delle riforme, e ne tratteggia la prospettiva, la forza del cambiamento, la vastità dell’innovazione con un terzo Matteo, il leghista Salvini. Tutto, come si vede, nel segno della semplificazione, della velocità, di non dare spazio ai dubbi e alle ostruzioni.
Un Matteo tira l’altro, e finalmente si cambia verso.
Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2014