Ciò che in Iraq ha destato più stupore in questi giorni è stata la passività con cui l’esercito locale ha tentato di arginare l’avanzata degli insorti a Mosul. Il che ha evidenziato definitivamente la debolezza di un premier divenuto negli anni simbolo di un’instabilità politica connessa all’eredità tossica depositata dall’amministrazione Bush durante l’invasione americana.

Il governo di al-Maliki è fallito, questo è il primo dato da considerare. Cosa ci si poteva aspettare da un uomo capace di rendere l’impiccagione di Saddam Hussein uno spettacolo teatrale, convinto di voler ricostruire l’Iraq imbracciando dei kalashnikov. Non è un caso che siano ancora in corso d’opera le negoziazioni per una nuova coalizione di governo dopo il voto del 30 aprile scorso.

La sfiducia, sul fronte interno, ha raggiunto livelli altissimi, e in molti credono che solo un nuovo intervento di Washington possa riuscire a delimitare la costruzione un santuario estremista governato dall’Isil. Tanto grande da poter minacciare anche la Giordania e gli altri stati arabi del Golfo, acuire il conflitto tra sunniti e sciiti e spingere, quasi per legittima difesa, Baghdad vicino a Teheran. Che proprio in questi giorni è giunta a suggerire un intervento congiunto con l’eterno nemico statunitense.

Obama ha già escluso l’ipotesi, ma ciò non vuol dire che dal Pentagono non possano giungere forniture di armi e strumenti di intelligence. Un’altra campagna drone, alla luce delle spese che comporterebbe e degli scarsi risultati ottenuti in Pakistan e nello Yemen, allo stato attuale è impensabile.

La questione predominante è capire però come reagiranno i vicini dell’Iraq ai nuovi disordini. E’ difficile credere che l’Iran, paese a maggioranza sciita che ha visto la sua influenza regionale crescere considerevolmente dopo l’invasione americana anti-Saddam, assista passivamente dall’esterno. Ed è anche difficile credere che l’Arabia Saudita (sunnita) se ne resti seduta in panchina se gli scontri settari si protrarranno per altre settimane. C’è poi la Turchia, unico Stato membro della Nato ad aver costruito forti legami con il governo regionale del Kurdistan autonomo.

In cima a questo ipotetico risveglio gli Stati Uniti sono consapevoli di avere delle grandi responsabilità ed hanno, per la prima volta, diverse carte da giocare. Il primo step sarà aumentare la cooperazione con Baghdad ed elevare il livello di impegno sul fronte diplomatico per favorire una risposta efficace e inclusiva che isoli i militanti. Ciò non richiederebbe alcuna azione sul terreno, ma obbligherebbe gli Usa a rivedere parallelamente la loro posizione in Siria, poiché il sostegno retorico a una transizione politica condivisa è ormai fuori sincronia con la realtà sul campo di battaglia. Insomma, una duplice azione, coerente e integrata, che coinvolga entrambi i Paesi visto il “melting pot” jihadista nella regione.

Infine c’è una terza via da considerare: la cacciata di al-Maliki se non si dimostrerà in grado di contenere l’ulteriore espansione dell’Isil. Dunque lavorare su un rovesciamento del potere trovando degli accordi con gli altri attori iracheni tra cui i curdi del nord, le milizie arabe sciite e le tribù sunnite anti-Al Qaeda. In questo caso l’esito potrà essere la divisione permanente del Paese tra curdi, sciiti e sunniti, ma un Iraq frammentato in cambio di un abbattimento, o di un contenimento, dell’influenza qaedista legata all’Isil nell’area sunnita sarebbe preferibile a un Iraq “unito” con un governo corrotto, autoritario, e per questo estremamente debole di fronte all’insorgere di nuove emergenze.

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