“Sono stato io. Voglio il massimo della pena”. All’orrore infinito per il femminicidio triangolato di Motta Visconti (madre-figlia-figlio sgozzati in casa dal marito-padre), sono le parole del carnefice l’affronto finale di questa terribile vicenda. Il tentativo, meschino e consapevole, di lavarsi la coscienza davanti all’opinione pubblica con la richiesta di una pena esemplare. Un tentativo miserabile che non lo rende un criminale migliore ma un criminale e basta. Probabilmente uno peggiori, al pari dell’uomo che nel 2012 annegò il figlio di 16 mesi nel Tevere gettandolo da Ponte Mazzini per punire la madre.
E allora non basta invocare il massimo della pena per scendere di un gradino nel rango dei carnefici, non basta ingannare l’opinione pubblica, nell’illusione che alla “follia” del gesto abbia fatto seguito la consapevolezza e quindi il pentimento. Accendere un faro sul suo rimorso è pericoloso, così come è pericoloso pubblicarlo a grandi titoli sui giornali, accanto alle foto di lui in abito da sposo. In tutta questa vicenda, l’utilizzo strumentale del pentimento è solo alcol sul fuoco. La realtà dei fatti è una sola e parla chiaro: lui ha sterminato razionalmente l’intera famiglia, prima la moglie e poi i figlioletti, con un coltello da cucina. E questa volta non perché mal digeriva una separazione, ma perché voleva stare con un’altra. Opposto il movente ma il risultato non cambia.
In questo scenario lui non ha diritto al pentimento, non ha diritto a guadagnarsi un virgolettato sulle pagine dei quotidiani, né tanto meno ha il diritto di offuscare la realtà con una parvenza di contrizione che serve solo a lui e a nessun altro.