Sono tantissime le comunicazioni che a poche ore dalla strage familiare di Motta Visconti, (alla quale sono seguiti altri due femminicidi), continuano incessanti tra gruppi, associazioni di donne, singole e singoli. Un amico mi manda un sms: “Come si fa a non vergognarsi di essere un uomo”- scrive.
Sgomento, rabbia, senso di angoscia, il desiderio di fare qualcosa di concreto, forse una manifestazione nazionale, flash mob locali, momenti collettivi per condividere la paura e l’impotenza, in un paese europeo nel quale non c’è nemmeno più un riferimento ministeriale nel quale far procedere il faticoso cammino della formazione al rispetto tra i generi fin dall’asilo, uno dei più importanti argini, se non il primo strumento, per educare alla nonviolenza, e dove i centri antiviolenza faticano a stare in piedi.
La sensazione fisica è quella di essere nel plot di un testo alla Stig Larson, mentre invece di realtà si tratta: della nostra, quella della notte prima degli esami di molti figli e figlie, della vigilia della nuova partita della Nazionale, che verrà rumorosamente giocata con tre donne, una bambina e un bambino in meno dei quali sappiamo perché mancano all’appello.
Il mondo non si ferma per le stragi perpetrate da uomini che uccidono le donne, si ferma per le partite del Mondiale. Mesi fa sono stata invitata per un ciclo di incontri culturali, e le date sono state accuratamente scelte evitando gli appuntamenti calcistici dell’Italia.
Se avessimo letto, in un romanzo, o visto in tv o al cinema, che l’assassino prima stermina la famiglia e poi siede al bar ad esultare per la vittoria pallonara avremmo pensato ad una trovata grottesca. Invece è tutto vero, e manca il fiato.
Ancora qualche settimana fa, in una discussione politica, c’era dissenso e critica sull’uso da parte delle ‘femministe’ della parola femminicidio: mai neologismo è stato più avversato, come se la potenza della parola, da sola, suonasse intollerabile. Un fastidioso memento della realtà, che bastasse evitare di nominare per cancellarne la violenza evidente.
Come nell’infanzia si chiudono gli occhi, pensando che il brutto scompaia, così in questo paese, pur a fronte del fiume di sangue che scorre ogni settimana, molte persone continuano a negare. Negare che la violenza contro le donne sia un problema degli uomini, negare che si tratti di una questione politica e sociale, negare che sia una priorità da affrontare subito e con strumenti incisivi nell’educazione alla sessualità responsabile, nella formazione, nella prevenzione, dalla famiglia, alla scuola ai luoghi di lavoro. Quando una società chiude gli occhi, però, sappiamo cosa accade, la storia lo ha ampiamente documentato. C’è un passaggio della bella lettera scritta dall’Udi di Napoli sui fatti di Motta Visconti che usa una chiave di lettura importante, racchiusa della parola ‘libertà’.
“Per lungo tempo –si legge nel comunicato- la violenza perpetrata in famiglia e dalla famiglia è stata dissimulata, trattata come un’anomalia di un istituto che di per sé protegge. Un istituto che protegge e che, se non lo fa, si è pensato e si pensa, è per errori e manchevolezze delle donne, spesso vittime. In questo impianto culturale nelle separazioni tra donne e uomini esplode l’ineguaglianza profondamente voluta e coltivata nel nostro sistema: la prospettiva dell’annientamento è la minaccia immanente sull’esistenza femminile sia che le donne lascino, sia che vengano lasciate da un uomo.
L’uomo che ha ucciso la moglie e i figli per riconquistare la sua libertà ha mostrato nel modo più incontrovertibile che nella libertà degli uomini non c’è spazio per quella delle donne, e che anzi la loro libertà esclude quella delle donne. Lasciare una donna, che sia quest’ultima favorevole o no alla separazione, rappresenta, di fatto, la liberazione dei suoi gesti e l’impossibilità di condizionarli”. Un nodo non da poco: in questi decenni il concetto di libertà è stato progressivamente sganciato da quello di responsabilità, sia nell’individualità che nel collettivo. Come la cronaca ci mostra, lo spezzarsi di questo legame ha conseguenze spaventose.
Aggiornamento delle 19:45: In decine gruppi associazioni e reti di donne chiedono un segno tangibile di condanna e di disponibilità al cambiamento da parte degli uomini più influenti in questo momento nella nostra società: la proposta, che sta correndo in rete, è che gli 11 calciatori che disputeranno la prossima partita dei Mondiali in Brasile indossino insieme a tutte/tutti noi un nastro nero appuntato sul petto o intorno al braccio.