"Questo caso può essere un tassello della messa al bando di questa pratica", spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Nel paese sono il 91% le donne mutilate, secondo l'opinione pubblica "per salvaguardare la loro integrità morale e sessuale". Un fenomeno di origine tribale pre-islamico, contro il quale si è espressa anche la massima autorità sunnita di Al Azhar
In Egitto la legge esiste dal 2008 ma solo ora, a distanza di 6 anni, per la prima volta un medico è sotto processo per aver praticato una mutilazione genitale femminile. Il caso risale a giugno del 2013 quando Sohair al Bataa, studentessa di 13 anni residente in un villaggio del governatorato egiziano di Mansoura, è morta sotto i ferri mentre veniva mutilata. Il medico Raslam Fadl è ora sotto processo assieme al padre di Sohair, accusato di essere complice nella morte della figlia.
“Al Bataa aveva inizialmente denunciato alla polizia che sua figlia era morta durante un’operazione e che lui l’aveva accompagnata affinché venisse mutilata”, spiega a Ilfatto.it Reda el Danbouki, avvocato del Women’s Center for Guidance and Legal Awareness, una delle ONG che ha portato il caso in tribunale. Secondo quanto affermato da Danbouki, il padre ha ritrattato la sua versione al commissariato dopo aver ricevuto un’offerta di denaro da parte del medico. Il caso era stato poi archiviato con la motivazione che Sohair era deceduta a causa di una grave reazione allergica alla penicillina.
“Abbiamo chiesto al governo di avere la perizia forense”, spiega Suad Abu Dayeh, coordinatrice regionale per il Medio Oriente di Equality Now, altra ONG che ha svolto un ruolo chiave nell’incriminazione degli imputati. “Una volta accertato con la perizia che Sohair è morta mentre veniva mutilata, abbiamo ottenuto tramite diverse pressioni al Consiglio Nazionale per la Popolazione Egiziana l’istituzione di una commissione di inchiesta che è riuscita a far partire il processo”. La prima udienza si è svolta lo scorso maggio, la seconda si svolgerà il 19 giugno, nel tribunale del villaggio dove viveva Sohair. “L’attenzione dei media internazionali non è piaciuta agli abitanti del villaggio”, racconta El-Danbouki. “C’è una sorta di omertà che aleggia su questo fenomeno e soprattutto per la maggior parte dell’opinione pubblica le mutilazioni sono un dovere per salvaguardare l’integrità morale e sessuale delle donne”.
Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, in Egitto le donne mutilate sono il 91%. I vari programmi messi in atto dalle organizzazioni internazionali, in primis, appunto, le Nazioni Unite, sembrano non riuscire a portare dei risultati concreti. Inoltre, le mutilazioni genitali femminili non sono una pratica legata all’Islam; si tratta, infatti, di una tradizione tribale pre-islamica originaria del Corno d’Africa e assente nel resto dei paesi a maggioranza musulmana. Nonostante la presa di distanza da parte della massima autorità sunnita di Al Azhar, che regolarmente diffonde anche degli opuscoli informativi spiegando che il Corano non obbliga le donne alla mutilazione, diversi sheick, in particolare nelle aree rurali, invitano a praticare la mutilazione. Anche il partito salafita dell’Hizb al Nour si è da sempre dichiarato a favore (lo scorso anno alcune donne vicine al partito scesero in piazza al Cairo difendendo il loro diritto a essere mutilate).
Ora questo processo potrebbe essere un piccolo mattoncino per implementare una legge approvata sotto la protezione dell’allora first lady Suzanne Mubarak ma che sino a oggi sembrava finita nel dimenticatoio. “Secondo questa legge gli imputati rischiano sino a 6 anni di carcere“, continua El-Danbouki. “Il testo avrebbe bisogno di molte modifiche ma questo processo almeno rappresenta un passo avanti per la sua applicazione”. A ritenere che il processo sia un punto per mettere al bando le mutilazioni c’è anche Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Si spera che questo processo possa contribuire a mettere davvero al bando queste barbarie”, spiega Noury. “Ma temo che neanche la repressione sarà sufficiente a sradicarla. Se il governo del Cairo desse fiducia alle organizzazioni non governative, anziché ostracizzarle, a queste potrebbe essere affidato un ruolo di informazione e di educazione fondamentale per impedire che, soprattutto lontano dai centri urbani, ci si rivolga ancora allo ‘stregone del villaggio’ in rassicurante camice bianco per affidargli il compito di rispettare la ‘tradizione’”.