Il presidente Francesco Cossiga si rivolgeva al Consiglio superiore della magistratura con la formula imperiale “Ordino e dispongo”. Il presidente Giorgio Napolitano si manifesta invece al Csm in forme fantasmatiche o sciamaniche: il suo volere si rivela attraverso una lettera “non ostensibile” e si materializza attraverso le formule e i riti dello sciamano (il vicepresidente Michele Vietti), che solo ha accesso alle parole del dio.
L’obiettivo dei due presidenti è lo stesso: la pretesa che il Csm obbedisca al capo dello Stato (che è anche presidente del Csm). Il risultato è opposto: il Csm ieri si ribellò a Cossiga, oggi si piega a Napolitano. Dopo il netto, benché surreale, manifestarsi della volontà del presidente, due commissioni del Csm modificano le loro risoluzioni da presentare al plenum. In linea con il diktat imperiale, smussano le osservazioni critiche a carico del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati e sottolineano invece quelle a carico dell’aggiunto Alfredo Robledo, autore dell’esposto (come se, dopo un furto, il denunciante fosse punito al posto del denunciato). Il plenum, infine, ratifica. Archivia. Chiude la partita, stampigliando sulla pratica il timbro reale del presidente. Eppure i problemi sollevati da Robledo nella procura più significativa d’Italia restano tutti aperti.
Resta aperta la questione dell’anomala assegnazione delle inchieste. Almeno due casi importanti, l’inchiesta Ruby e l’indagine Expo, sono stati affidati da Bruti a Ilda Boccassini, coordinatrice del pool antimafia, benché non avessero alcuna relazione con la criminalità organizzata. Ora il presidente ribadisce che “i poteri di organizzazione dell’ufficio sono divenuti prerogativa del capo della procura”. Ma non senza regole. Non secondo il capriccio del procuratore. Perfino Napolitano nel suo intervento del 2009 diceva che al capo è affidato “il potere-dovere di determinare i criteri generali di organizzazione della struttura”. Criteri generali, non scelte discrezionali e immotivate. Tanto che anche un magistrato esperto e cauto come Ferdinando Pomarici mise per iscritto, nel 2010, il suo dissenso con Bruti sulla scelta di assegnare il caso Ruby a Boccassini, secondo lui intervenuta esercitando una informale “auto assegnazione”. E parlò di violazione “di una norma che ha costituito per anni cavallo di battaglia di Magistratura democratica, proprio per evitare il fenomeno delle assegnazioni pilotate”. Ora, proprio uno dei leader di Magistratura democratica rinnega nei fatti la sua storia.
Resta aperta la questione del fascicolo dimenticato: l’inchiesta sulla vendita di azioni Sea da parte del Comune di Milano fu tenuta ferma, senza un atto d’indagine, e poi chiusa in cassaforte da Bruti. Questo potrebbe aver pregiudicato l’esito finale in una vicenda delicata, che riguardava l’operato della giunta del sindaco Giuliano Pisapia.
Resta aperta la questione dello “stile” di conduzione della procura e, più in generale, della gestione del potere (anche correntizio), rivelata da una frase come quella detta da Bruti a Robledo nel marzo 2010: “Ricordati che sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, e che questo è un voto di Magistratura democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al Csm che Robledo mi rompeva i coglioni e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata nominata la Gatto (Nunzia, ndr), che poi avremmo sbattuto all’esecuzione”.
Restano nel dubbio le contestazioni mosse, durante la discussione al Csm, all’autore dell’esposto, Robledo. Lo si è accusato di aver intralciato le indagini su Expo con un “doppio pedinamento”: eppure questo dagli atti proprio non risulta. Lo si è accusato di aver danneggiato quelle indagini, rivelando nel suo esposto al Csm atti segreti: ma anche questo non trova verifica. Lo si è perfino accusato di non aver sollecitato il fascicolo dimenticato da Bruti in cassaforte: adombrando che alla fine quella dimenticanza fosse tutta colpa sua. Così l’effetto mediatico finale è che il “denunciato” (Bruti) esca dalla vicenda pienamente prosciolto, mentre il “denunciante” (Robledo) resta con le ombre che gli sono state gettate addosso.
Vietti, il ventriloquo del presidente invisibile, ha sostenuto che il Consiglio dovesse “salvaguardare la credibilità dell’azione giudiziaria che può risultare indebolita da eccessive polemiche”. Ma la credibilità delle istituzioni non è indebolita da chi denuncia eventuali irregolarità, bensì da chi le commette.
Da oggi, la magistratura è meno libera. E non per effetto di un attacco esterno, ma per scelta di un Csm che non ha saputo dire di no a Napolitano, come aveva saputo dire di no a Cossiga. Da oggi si assottiglia l’autonomia dei magistrati d’accusa. Dopo il diktat presidenziale, la gerarchizzazione delle procure decisa nel 2006 dalla riforma dell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella diventa dogma, il potere dei capi diviene arbitrio. Non è un bel giorno: non per i magistrati, ma per i cittadini.