Per ora le polemiche sono rimaste confinate al nostro Paese. Ma la maggiore flessibilità dei nuovi contratti a termine introdotta dal governo Renzi potrebbe originare nei prossimi mesi un caso a Bruxelles. Due avvocati milanesi hanno infatti presentato una denuncia alla Commissione europea contro la violazione del diritto comunitario che la riforma del lavoro comporterebbe. Perché il decreto approvato a marzo e poi convertito in legge un mese fa ha abolito l’obbligo di indicare la causale nelle proroghe dei contratti a termine. Una novità che secondo i due legali andrà a scapito dei contratti a tempo indeterminato, riconosciuti dalla normativa europea come tipologia modello, e inciderà “negativamente sulla dignità dei lavoratori, ulteriormente esposti alla precarizzazione dell’occupazione e di ogni altro aspetto della vita sociale, relazionale e affettiva in cui viene a estrinsecarsi la personalità”. Sebbene diversi esperti ritengano che da un punto di vista giuridico il decreto promosso dal ministro Giuliano Poletti è rispettoso del diritto comunitario, l’apertura di un procedimento d’infrazione contro l’Italia per il Jobs Act è stata chiesta anche con altre denunce, come quelle inviate o in procinto di essere inviate in Europa dal sindacato Usb, da alcuni parlamentari del M5S e dall’Associazione nazionale giuristi democratici.
In particolare secondo Maria Grazia Mei e Massimiliano Calcaterra, legali dello studio associato Mei & Calcaterra di Milano, la riforma del governo Renzi non rispetta la direttiva europea 70 del 1999, approvata per attuare l’accordo quadro sui contratti a tempo determinato firmato dalla Confederazione europea dei sindacati (Ces), dalla ‘confindustria’ europea (Unice) e dall’associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico (Ceep). Nell’accordo si stabiliva che per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di più contratti a tempo determinato in successione gli stati membri “dovessero introdurre una o più misure” relative alle causali da indicare per il loro rinnovo, alla durata massima totale dei contratti a termine successivi e al numero dei rinnovi.
Il decreto legislativo 368 del 2001 recepì la direttiva in modo rigoroso, stabilendo tra le altre cose che l’indicazione della causale fosse obbligatoria. Ma su tale impostazione è ora intervenuta la nuova legge che, sebbene abbia mantenuto un limite nella durata massima (36 mesi) e nel numero dei rinnovi dei contratti a termine (cinque), ha abolito l’obbligo di causale. E proprio su questo punto si concentra la denuncia, dove si legge che la riforma “viola palesemente e indiscutibilmente quanto indicato dalla direttiva CE 70 del 1999. In particolare lede il principio secondo cui a sostegno del termine apposto ad un contratto di lavoro subordinato debbano essere indicate le ragioni obiettive che lo giustificano”, la causale appunto.
Ma c’è di più: la nuova legge pone un limite del 20 per cento al numero di lavoratori a tempo determinato che un’azienda può avere rispetto all’organico complessivo, ma se i dipendenti non sono più di cinque questo limite salta. La riforma, accusano quindi Mei e Calcaterra, “apre la strada a un uso indiscriminato del contratto di lavoro a termine e viola tanto i principi che vietano l’abuso di tale strumento quanto quelli che vietano la discriminazione tra lavoratori”. Favorire la diffusione dei contratti a tempo determinato a scapito di quelli a tempo indeterminato viene poi giudicato un altro aspetto in contrasto con la direttiva europea, che stabilisce che “i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno a essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori”.
Ora spetterà alla Commissione europea decidere se accogliere la denuncia e farne derivare una procedura d’infrazione. Un’eventualità che secondo Luca Visentini, membro della segreteria del Ces ed ex segretario generale della Uil del Friuli Venezia Giulia, non dovrebbe realizzarsi. Pur giudicando negativamente l’abolizione della causale, il sindacalista ritiene infatti che la riforma non contraddice la normativa europea, visto che lo Stato italiano continua ad adottare misure sulla durata massima totale dei contratti a termine e sul numero dei rinnovi. Analoga l’opinione di Maria Teresa Carinci, docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano, secondo cui le tre misure previste dalla direttiva non devono per forza essere in vigore contemporaneamente, ma è sufficiente che lo sia una di esse. Tanto più che – spiega Carinci – una recente sentenza della corte di giustizia dell’Ue (C-190/13) ha interpretato in modo lasco la direttiva, stabilendo che se nell’ordinamento nazionale ci sono delle misure alternative alle tre indicate nella direttiva, ne va valutata l’efficacia prima di ritenerle inadeguate.
Se però dal piano giuridico si passa a quello della politica del diritto, il giudizio della professoressa è critico: “La direzione in cui va la riforma non è quella giusta – sostiene -. Perché è stata aumentata la flessibilità in entrata, e così la precarietà del lavoro, senza le necessarie tutele per i lavoratori. I contrappesi che dovrebbero essere introdotti dal Jobs Act non ci sono ancora. Sarebbe stato meglio puntare su altri aspetti, quali la flessibilità nel rapporto di lavoro, per esempio nella disciplina dell’orario e delle mansioni, così da garantire all’impresa la possibilità di adattarsi al contesto economico-organizzativo, ma al contempo assicurare al lavoratore la continuità dell’occupazione e del reddito”.