Quando Elvis Presley morì a 42 anni, nel 1977, sembrava che quella fosse la massima aspettativa di vita per una rockstar, e qualcuno pensò che anche per il rock stesse suonando l’ultima ora. Oggi possiamo dire si trattava di un’impressione sbagliata. Trentasette anni dopo, Roma si prepara a ricevere l’unico concerto italiano dei Rolling Stones, previsti per domenica al Circo Massimo migliaia di pellegrini, tutti provenienti idealmente da Woodstock. Dopo tanti papi santi e dopo Suor Cristina che intona il Pater Noster, quasi un processo di beatificazione laica. Altri meditano sul da farsi: unirsi alla folla o accontentarsi di tanti bei ricordi? Svenarsi da un bagarino o mettere da parte i soldi per comprare un cimelio da Soteby’s?

Comunque la si giri, siamo di fronte alla conferma che il rock è una prova della relatività del tempo, nonostante uno stile di vita non proprio salutista. È sopravvissuto, ed è rimasto il modello di riferimento di tutta la musica giovanile. Ha un piede nella fossa, l’altro nel futuro, e tutti e due nel business. Detto questo, la vecchiaia non è uguale per tutti, tantomeno l’eterna giovinezza. Ci sono rockstar che il tempo non ha appannato, come è stato per Lou Reed, e come è tuttora per Bruce Springsteen, Paul McCartney o per il nostro Adriano Celentano, perché hanno saputo invecchiare restando fedeli a loro stessi, e la stessa saggezza hanno trasmesso anche ai loro fan. Ce ne sono altre, come Bob Dylan, che esibendosi tendono a diventare l’eco sbiadita della loro grandezza, e farebbero meglio ad aspettare a casa la chiamata dall’Accademia di Stoccolma che a girare il mondo per trovarsi di fronte a platee ogni volta più rade. Poi ci sono ci quei dinosauri del pop, più che del rock, che tendono alla rievocazione storica, i cui concerti assomigliano alla partita del cuore disputata dalle vecchie glorie: dagli Eagles, agli Aerosmith ai Black Sabbath, fino ai Nomadi e ai Pooh.

Poi ci sono i Rolling Stones, che invece sembrano fare sul serio, quasi la metafora di una generazione che non vuol saperne di mollare né microfono né palco; non in nome della gerontocrazia, ma perché si sente ancora in splendida forma. Roba che Faust può andare in pensione. Nel documentario Shine a light Martin Scorsese ha perorato la loro causa nel modo migliore: senza parole, solo musica e immagini. Nel concerto tenuto a New York otto anni fa vediamo Mick Jagger che si dimena tarantolato e lascivo come un ragazzino, la stessa chioma e lo stessa ghigna nonostante le rughe da capo Sioux, e così pure Keith Richards, Ron Wood e Charles Watts, diabolici e fiammeggianti con le loro zazzere, le loro bandane, i loro bicipiti e le loro linguacce forever.

Jagger, poi, non perde occasione di alimentare la propria leggenda di Dorian Gray impunito anche nella vita privata: a settant’anni suonati e a tre mesi dal suicidio della compagna Wren Scott si è appena fatto fotografare con la nuova fiamma, una ballerina ventisettenne. E dunque che fare? Andarci o non andarci, al Circo Massimo? Se c’è da correre un rischio, l’occasione è questa; ma sempre con qualche cautela. Alle prime file, meglio preferire le ultime, dove rughe e tinture per capelli si vedono meno. E questo specialmente se si è dei fan della prima ora, più vicini ai settanta che ai sessanta. Se nella foga del sabba rock anche il canuto rockettaro si alza e prova a dimenarsi come Mick, sappia che il giorno dopo la visita dall’ortopedico è pressoché certa; e se sempre Jagger, intonando Satisfation, strizza l’occhio all’attempata groupie urlandole “Piccola, dopo ti aspetto nel mio camerino”, conviene dirgli di sì senza prenderlo alla lettera. A un certo punto della vita, ci si può accontentare di credere alle promesse senza andarle a verificare. Ecco, sotto questo aspetto i Rolling Stones svolgono una funzione meritoria, quasi umanitaria, e il posto giusto per applaudirli è proprio la città eterna, dove non c’è alcuna differenza tra un rudere e un monumento.

 Il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2014
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