Dal 2003 al 2013 anche le emissioni estere di bond italiani contenevano la clausola "pari passu". Cioè la stessa che impedisce a Buenos Aires di ripagare solo i creditori che hanno aderito all'accordo di concambio. Solo a maggio dell'anno scorso, dopo l'entrata in vigore del Meccanismo europeo di stabilità, il Tesoro ha cambiato il prospetto e introdotto la possibilità di modificare scadenza e interesse dei titoli. Cambiamenti che però non ci metterebbero al riparo in caso di ristrutturazione del debito
Dopo essere stata un rischio reale negli anni scorsi, ancora oggi viene riproposta più o meno puntualmente da economisti ed esperti come una via d’uscita dalla morsa in cui siamo finiti tra scarsa crescita ed eccessivi interessi. La ristrutturazione del debito da più parti viene vista come una panacea, una soluzione ultima per ripartire da zero e ricostruire dalle macerie. L’Argentina però ci insegna, raggiungendo il clou in questi giorni, che il percorso può essere accidentato e riservare imprevisti dietro l’angolo. Tanto che la Casa Rosada ora rischia un nuovo default. Il nodo si chiama clausola di “pari passu”, cioè parità dei crediti: è l’impegno esplicito del debitore a garantire pari trattamento a tutti i creditori. In parole povere: tutti gli obbligazionisti devono essere trattati allo stesso modo. Sia che abbiano accettato i nuovi termini, sia che non abbiano aderito al piano di ristrutturazione. Come, appunto, ha stabilito il giudice Usa Thomas Griesa nel caso di Buenos Aires. Non per niente è proprio su questo aspetto che il governo di Cristina Kirchner spera di poter trattare: lunedì il ministro dell’Economia, Alex Kiciloff, ha chiesto che il togato “valuti una misura sospensiva della clausola affinché l’Argentina possa pagare i creditori” che hanno aderito ai concambi.
Ma come mai la questione riguarda anche l’Italia? Perché nelle nostre emissioni estere di bond, e precisamente nei prospetti depositati presso la Consob americana, la Sec, c’è traccia, dal 2003 fino al 2013, non solo di una clausola di “pari passu”, ma anche di un’ulteriore esplicitazione, che, secondo la definizione di Anna Gelpern, docente di legge a Georgetown, la rende la meno ambigua e più vulnerabile di tutte le clausole di questo genere del pianeta. Questo a causa di due paroline, “equally” e “ratably”. In pratica, nei prospetti di emissione dei nostri bond esteri di tutto il decennio viene specificato che il rimborso sia non solo “equo” ma anche “proporzionale” a quanto dovuto a tutti i creditori.
Le clausole di “pari passu” sono state spesso oggetto di dibattiti in punta di diritto. E, proprio a causa di una ambiguità di fondo, nel tempo sono state formulate in maniera sempre più esplicita a sfavore dell’emittente. In particolare negli anni ‘90, come sottolinea Mark Weidemaier, docente di legge dell’Università della North Carolina, questo tipo di clausola si è riferita sempre meno a un neutrale “equal ranking” tra i creditori e sempre più a un “equal payment” verso gli stessi: il secondo è il caso dell’Argentina, che ha portato Griesa alla decisione degli ultimi giorni. Una pratica inusuale nelle emissioni obbligazionarie di uno Stato, in quanto ne restringe le possibilità di manovra in caso di emergenza. Proprio come accaduto a Buenos Aires.
L’Italia, incredibilmente, rientrava addirittura in una terza casistica, ovvero nelle clausole di “pari passu” che fanno esplicito riferimento a un pagamento non solo equally ma anche ratably, in misura proporzionale: non è possibile pagare qualcuno senza pagare anche gli altri. Senza particolari interpretazioni, tutto nero su bianco. Un colpo in canna per chi avesse avuto la possibilità e l’intenzione di citare in giudizio il nostro Paese. Il Belize, in una situazione simile, nel 2013 si era affrettato a chiarire sui suoi prospetti che la clausola di “pari passu” non implicava un obbligo di pagamento verso tutti i creditori.
E lo stesso ha fatto l’Italia. A partire dalle emissioni del maggio 2013, probabilmente alla luce degli sviluppi della vicenda argentina (che è tornata alla ribalta in questi giorni ma procede da almeno un paio di anni), il Tesoro ha deciso di cambiare la dicitura nei nostri prospetti di emissioni estere. E’ stata infatti introdotta una negative pledge, cioè un impegno nei confronti del creditore di non concedere, ad altri finanziatori successivi con lo stesso status, garanzie migliori. E di non concedere privilegi sui beni che formano le sue attività senza offrire analoga tutela al creditore.
Un impegno, però, condizionato a “disposizioni vincolanti di trattati internazionali o simili obblighi di cui l’Italia è parte. Il riferimento, neanche troppo velato, è al trattato che ha istituito il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), che infatti a un certo punto recita: “I capi di Stato o di governo hanno concordato che i prestiti del Mes fruiranno dello status di creditore privilegiato in modo analogo a quelli del Fmi”. Un ombrello, quello istituito dal Mes, che fa il paio con l’introduzione, sempre a partire dallo scorso anno, delle Clausole di Azione Collettiva (Cacs), che mitigano il potenziale “rischio argentino” consentendo al governo di cambiare scadenza e interesse dei titoli pubblici di nuova emissione. Cambiamenti necessari ma tardivi, perché non retroattivi. E che non ci mettono al riparo da sorprese in caso di ristrutturazione del nostro debito per le emissioni nel decennio considerato.