Il Maracanazo del 1950 e Obdulio Varela, il porto della capitale uruguagia e le atmosfere di 'Pensare con i Piedi': da ogni prospettiva, a colori o in bianco e nero, per gli appassionati il Paese sudamericano non è solo la Celeste, ma anche l'inizio (e la vetta più alta) della letteratura applicata al pallone
E’ nel porto di Montevideo, luogo d’incontro e di scontro, di commercio e di transito, tra spagnoli e portoghesi prima, e poi tra argentini, brasiliani, italiani, baschi e inglesi, che nasce il calcio sudamericano. Ed è sempre lì, su quelle banchine, tra marinai e avventurieri, aristocratici e contrabbandieri, che fiorisce la letteratura calcistica. Comincia il calcio, a cavallo del ventesimo secolo, importato per un curioso auspicio proprio da un professore di letteratura, l’inglese William Leslie Pool, e il successo è incredibile: paesino minuscolo, nemmeno tre milioni di abitanti, la Celeste uruguagia rivaleggia con l’Albiceleste argentina e nel giro di due decadi porta a casa cinque volte la Coppa America e poi in sei anni due volte l’Olimpiade (1924 e 1928) e il primo Mondiale della storia. E’ il 1930, l’anno in cui a Montevideo è inaugurato l’Estadio Centenario, primo impianto in cemento del continente. E’ l’ultimo anno in cui, a memoria d’uomo, il porto di Montevideo fu ricoperto di neve.
E’ vent’anni dopo, al Mondiale di Brasile 1950, che la storia e la letteratura del calcio si sovrappongono sull’estuario del Rio de La Plata. E’ l’anno del Maracanazo, di quell’incredibile 16 luglio in cui davanti ai 180mila spettatori del vecchio Maracanã, Schiaffino e Ghiggia regalano la seconda Coppa del Mondo all’Uruguay e fanno piangere il Brasile. E’ un argentino nato al di là dell’estuario, Osvaldo Soriano, che mezzo secolo dopo immortala quella storia scrivendo tra le più belle pagine di letteratura calcistica attraverso gli occhi di Obdulio Varela: il capitano uruguagio che quella notte attraversata da pianti e disperazione, alcol e suicidi, la passa in giro per Rio de Janeiro con il massaggiatore dell’Uruguay a bere abbracciato con i tifosi brasiliani.
E’ qui che per il Varela di Soriano – autore di Pensare con i Piedi e di Fútbol: Storie di Calcio – la vittoria diventa un dolore, la gioia un peso insostenibile da portare sulle spalle davanti agli sconfitti. In quel detour esplosivo che è il flusso di coscienza della narrazione di Soriano/Varela il calcio è sepolto, negando alla radice il concetto di vittoria, e allo stesso tempo innalzato alle vette più sublimi. Pochi anni dopo il Maracanazo, un ragazzino di Montevideo che giocava a pallone per strada con gli amici comincia a spedire al quotidiano socialista locale le sue prime storie. E’ Eduardo Galeano, uno dei più importanti scrittori del continente latinoamericano, l’autore del seminale Le Vene Aperte dell’America Latina, che negli anni Novanta impone alla letteratura alta il calcio e le sue mille sfumature con Splendori e Miserie del Gioco del Calcio: raccolta di brevi scritti sulla storia del calcio mondiale vista attraverso campioni e tifosi, la gioia dei bambini e la corruzione degli adulti.
Da quel porto di Montevideo dove nascono il calcio sudamericano e la sua narrazione, salpano un florilegio di tentativi riusciti o meno di coniugare buona letteratura e storie di pallone. Certo nel 1820 Giacomo Leopardi aveva già composto in versi A un vincitore nel pallone, e negli anni Cinquanta del secolo scorso anche Umberto Saba aveva scritto Cinque poesie sul gioco del calcio. Ma è nel fin de siècle che calcio e letteratura s’incontrano per non lasciarsi mai più, grazie alle storie nate intorno all’Uruguay di Soriano e Galeano. Ecco che Montalbán scrive Il Centravanti è stato assassinato verso sera e Hornby risponde con Febbre a 90°. La scrittura calcistica sfonda nel mainstream, tra autobiografie di calciatori inglesi vendute al supermercato nella categoria bestseller, fino a una miriade di fanzine e poi blog scritti e curati da appassionati. Fino a oggi, a distanza di sessantaquattro anni dal Maracanazo, quando si è tornati a giocare e a raccontare il calcio in quel Brasile in cui “ci sono villaggi che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio” come scrive Galeano.
Oggi che letteratura calcistica si è fatta epica attraverso i latinoamericani, prosa negli scritti di Pasolini e poesia in quelli di Acitelli (La Solitudine dell’Ala Destra) e Magrelli (Addio Al Calcio). E che generazioni di scrittori britannici dalla gioventù cannibale degli Acidi Scozzesi ai nuovi Cartwright e Glass, dal calcio ultras di John King fino ai capolavori dell’immenso David Peace (Il Maledetto United e Red or Dead), hanno fuso nelle loro opere lotta di classe e conflitti interiori, sottoproletariato urbano e vite di ragazzi campioni e miliardari per caso. Oggi tutto torna sempre a Montevideo, dove nel 1947, tre anni prima dello spartiacque letterario del Maracanazo, nasce Óscar Washington Tabárez. L’allenatore che stasera guiderà l’Uruguay contro l’Italia, l’uomo che al Milan fu cacciato in malo modo da Berlusconi perché letterato e comunista. Il commissario tecnico che dopo avere vinto la Copa America 2011 con l’Uruguay disse: “La ricompensa è il cammino”. Pura poesia, puro calcio.