Separare l’infrastruttura in rame e in fibra da Telecom e creare una società delle reti a maggioranza pubblica per garantire lo sviluppo di Internet veloce e dare un grosso contributo alla ripresa del Pil. È questo il contenuto di una mozione presentata alla Camera dal Movimento 5 Stelle, a firma dell’onorevole Paolo Nicolò Romano, che punta a riaprire il dibattito sull’importanza strategica della rete di telecomunicazioni e sulla necessità di accelerare gli investimenti nel rispetto dei target 2020 fissati da Bruxelles nell’Agenda digitale.

Il documento, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare, si spinge anche oltre mettendo di fronte alle sue responsabilità il governo di Matteo Renzi, finora indeciso di fronte al tema Telecom e banda ultralarga. La mozione propone all’esecutivo di assumere un impegno formale per favorire la creazione di una nuova società delle reti che ingloberà il network di Telecom Italia secondo “un modello di governance (governo societario, ndr) di tipo public company (società ad azionariato diffuso, ndr) in cui oltre a detenere la maggioranza di capitale pubblico sia garantita un’adeguata rappresentanza nel consiglio di amministrazione di dipendenti e azionisti di minoranza”. E, infine, suggerisce di delineare rapidamente un piano industriale per gli investimenti nella banda ultralarga e di riprendere in mano la riforma della legge sull’offerta pubblica d’acquisto, mozione varata il 17 ottobre 2013 e mai resa esecutiva.

Il Movimento 5 Stelle torna sul caso Telecom e banda ultralarga proprio nel momento in cui si va sciogliendo il patto di sindacato che controlla Telco, la holding che finora ha controllato la società con il 22 per cento e che conta fra i suoi azionisti Telefonica, Intesa, Mediobanca e Generali. Con la fine di Telco, ognuno dei quattro soci controllerà direttamente le sue azioni della compagnia telefonica guidata da Marco Patuano. Agli spagnoli, che hanno appena venduto la quota di prestito convertendo in azioni Telecom nel 2016, andrà il 14,8 per cento della società. Una partecipazione appena sotto quella che, secondo la mozione Mucchetti-Mattioli, sarà la nuova soglia (15 per cento) per far scattare un’offerta pubblica di acquisto su una società quotata per via del “controllo di fatto” esercitato da un’azionista rilevante.

Dal canto suo, il management di Telecom ha più volte ribadito come la fine di Telco rappresenti un passaggio epocale per la società che si avvia a diventare una public company, ovvero una società ad azionariato diffuso. Senza però che sia realmente cambiata la struttura del consiglio di amministrazione di Telecom in cui l’influenza spagnola è ancora forte come testimonia il rinnovo, lo scorso aprile, dell’incarico di amministratore delegato a Patuano e la decisione del Cade, l’antitrust brasiliano, di multare Telefonica perché esercita un controllo di fatto su Telecom Italia con effetti discorsivi sul mercato brasiliano.

La separazione della rete, proposta dai 5Stelle e considerata dall’ex premier Letta come l’ultima spiaggia, risulta però una strada difficilmente percorribile sotto il profilo finanziario. Lo testimoniano mesi di trattative, poi finite con un buco nell’acqua, fra Telecom e la Cassa Depositi e Prestiti nel tentativo di costruire una società delle reti. Il progetto prevedeva che Telecom apportasse il suo network, parte del debito e dei dipendenti e la Cdp facesse confluire Metroweb, società controllata assieme alla F2i di Vito Gamberale impegnata nello sviluppo della fibra nelle più grandi città italiane. La trattativa si è però arenata sul nodo della valorizzazione della rete Telecom, che oggi, assieme alla filiale brasiliana, costituisce per le banche creditrici la più importante garanzia a fronte di un pesante indebitamento (28 miliardi). Ben più grosso del miliardo di debiti Alitalia che tanto fa discutere nel progetto di salvataggio firmato Etihad.

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