La dipendente vuole vedersi riconosciuto come parte dell’orario di lavoro il tempo necessario a indossare la divisa aziendale. In primo grado i giudici avevano accolto il diritto a essere retribuita nei venti minuti impiegati ogni giorno per raggiungere lo spogliatoio, vestirsi e poi svestirsi a fine turno. La corte d’Appello ha però ribaltato la sentenza di primo grado
Un ricorso in Cassazione. E una querela in cui denuncia la verbalizzazione infedele di una testimonianza resa durante il processo d’appello. Va avanti su due fronti la battaglia di Angela Mugnos, cassiera 49enne di un supermercato Coop di Genova, che vuole vedersi riconosciuto come parte dell’orario di lavoro il tempo necessario a indossare la divisa aziendale. Una richiesta che in primo grado il tribunale del Lavoro di Genova aveva accolto, riconoscendo a Mugnos il diritto a essere retribuita nei venti minuti impiegati ogni giorno per raggiungere lo spogliatoio, vestirsi e poi svestirsi a fine turno. E condannando l’azienda a versare 3.200 euro per quanto non pagato negli stipendi dal 2006 al marzo 2012. Una cifra non rilevante per una potenza come Coop Liguria, che però avrebbe potuto subire richieste analoghe dai circa 3mila dipendenti. Di qui la decisione di ricorrere alla corte d’Appello, che ha ribaltato la sentenza di primo grado.
Il giudice di primo grado aveva dato ragione alla cassiera in base a una sentenza del 2003 della Suprema corte, secondo cui “ove vi sia facoltà del lavoratore circa il tempo ed il luogo (anche a casa)” in cui indossare la divisa, il tempo necessario “fa parte degli atti di diligenza preparatoria e non deve essere retribuito; ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e come tale il tempo necessario deve essere retribuito”. E per il giudice, tra le prescrizioni aziendali sugli indumenti rientrava anche “l’obbligo per i lavoratori d’indossarli nello spogliatoio e di riporveli a fine turno”. Una valutazione che però la corte d’appello di Genova non ha fatto sua, ritenendo che le divise non dovessero per forza essere indossate nel supermercato, ma potessero essere indossate a casa e quindi portate durante il viaggio verso il luogo di lavoro.
Nei giorni scorsi Mugnos, assistita dal nuovo legale Antonio Pelle, ha depositato il ricorso in Cassazione. A non convincere nella sentenza d’appello – spiega l’avvocato – ci sono diversi punti. Come il fatto che i giudici non hanno ammesso tra le prove una circolare aziendale del maggio 2012 che dettava le disposizioni sull’obbligo d’uso dei dispositivi antinfortunistici di protezione individuale, tra cui il gilet imbottito e le scarpe di sicurezza, parte della divisa di Mugnos. Nella circolare era scritto in modo chiaro che “è fatto tassativo divieto” di utilizzare tali dispositivi al di fuori dell’attività lavorativa ed è consentita l’asportazione dei dispositivi “al di fuori del luogo di lavoro solo per effettuarne la pulizia o in caso di trasferimento ad altra sede di lavoro”. Due regole scomparse in una successiva circolare emessa nell’aprile 2013, ovvero dopo la sentenza di primo grado. Secondo il legale, inoltre, sono le stesse norme nazionali, in particolare il decreto legislativo n. 81 del 2008, che impediscono a un lavoratore di indossare i dispositivi di protezione individuale fuori dal luogo di lavoro.
Il caso di Mugnos non è isolato in Italia. A Roma un centinaio di dipendenti di Unicoop Tirreno, supportati dal sindacato Usb, ha fatto anch’essa causa per vedersi riconosciuta la retribuzione del cosiddetto tempo tuta. Mentre a Settimo Fiorentino cinque lavoratori hanno vinto contro Unicoop Firenze sia in primo grado che in appello. Al centro della valutazione dei giudici c’è sempre la stessa questione: se il datore di lavoro imponga o meno le modalità di vestizione, disciplinandone il tempo e il luogo di esecuzione. L’eventuale obbligo di retribuzione dipende infatti da tale circostanza, come confermato l’anno scorso da una sentenza della cassazione a sezioni unite sul caso di alcuni dipendenti dell’Azienda di servizi alla persona Golgi-Redaelli di Milano.
Ora ai giudici toccherà esprimersi anche sul caso di Mugnos. Ma la vicenda che coinvolge Coop Liguria potrebbe andare al di là del diritto del lavoro. E avere conseguenze penali. Perché la cassiera, sempre assistita dall’avvocato Pelle, ha presentato una querela in cui accusa un altro dipendente del supermercato di avere testimoniato il falso durante il processo d’appello, prima negando l’esistenza di disposizioni aziendali sull’obbligo di indossare i dispositivi antinfortunistici sul posto di lavoro, e solo in un secondo momento cambiando versione, a seguito dell’esibizione della circolare di Coop Liguria. Ma c’è di più: secondo Mugnos, nel verbale dell’udienza non si dà conto né del fatto che al teste sia stata mostrata la circolare, né del fatto che il teste abbia dato due risposte contraddittorie, tanto che “appaiono manifesti – si legge nella denuncia – l’alterazione e il travisamento delle circostanze per come verbalizzate dal pubblico ufficiale procedente alla presenza del medesimo collegio giudicante rispetto a quanto riferito, anche in prima battuta, dal testimone”.
A inizio giugno il pm di Genova Gabriella Dotto ha chiesto l’archiviazione del caso, ma il legale di Mugnos presenterà nei prossimi giorni opposizione. Intanto sono ancora in corso le indagini originate dalla querela di un’altra dipendente di Coop Liguria, Teresa Bruzzese, che dopo essere ricorsa senza successo in Cassazione per una causa di licenziamento, ha denunciato il mancato invio a Roma del fascicolo del processo di secondo grado da parte della cancelleria della corte d’Appello di Genova.