Il ritmo di Lampedusa non è come quello delle città italiane. Nell’isola sono le onde ed i venti a scandire il tempo, e te ne accorgi già dal mattino quando guardi se il traghetto è riuscito ad arrivare al porto. E lo capisci la sera quando la giornata è volata senza guardare l’orologio. Ci sono persone che rimangono “folgorate” da quest’isola, dal suo tempo, e decidono di rimanere qui per sempre nonostante le difficoltà che s’incontrano. Lampedusa è “condannata” ad essere un tranquillo luogo frontiera, approdo di salvezza che convive con la meta turistica ambita con una comunità che prova ad uscire dalla gabbia della retorica dell’emergenza nei quali i media l’hanno collocata. Solo la tenacia dei Lampedusani poteva resistere a tutto questo e trovare un punto di sintesi, una tenacia che nel corso dei decenni ha trasformato in positivo tutto quello che dal mare è arrivato: dal commercio delle spugne marine agli affitti dei confinati politici durante il fascismo, dalle pizze consumate dai militari di Mare Nostrum ai missili di Gheddafi attraverso i quali il mondo ha scoperto l’isola (siluri che poi sono diventati la portata principale di un noto ristorante lampedusano).
Il tempo a Lampedusa per me è segnato anche dal fatto che ogni volta che si leva un elicottero militare corro al molo Favarolo per capire se ci sarà un approdo di migranti, e da lì guardo il mare verso la Libia. La Libia è il paese principale dal quale si parte per rischiare la fortuna in mare ed è diventato ancora più di prima un luogo di umanità negata, di indicibili violazioni.
Durante le primavere arabe ho incontrato alcuni migranti che lavoravano nelle campagne pugliesi: uno di loro mi parlò dei soprusi che aveva subito in Libia, i segni sulla pelle erano una cartina che confermava quello che sentivo. Il suo sguardo mi è sembrato di rivederlo in alcune ragazze approdate di recente a Lampedusa per poche ore, uno sguardo spento che ti fa capire molte cose. Tutta questa violenza che pervade queste rotte non sfonda il muro mediatico ed anche se lo fa non fa indignare, per quello ci vogliono le grandi tragedie e la materialità dei corpi. Queste storie invece rimangono sussurri detti a denti stretti, un sentito dire che non lascia il segno nelle nostre identità collettive di occidentali. Se c’è una emergenza reale rispetto al tema delle migrazioni questa riguarda il livello sistematico di violazione dei diritti umani che i profughi subiscono oltre al fatto che molti di loro lasciano la vita nei mari e nei deserti. Non altro.
In questi giorni a mettere nero su bianco le violenze, gli stupri, e le torture che i migranti subiscono in Libia è stato un rapporto di Human Right Watch. La denuncia chiama in causa anche l’Italia e l’Europa che stanno finanziando luoghi dove sistematicamente si attuano torture verso chi viene recluso. Ma non è solo la Libia il luogo in cui avvengono i maltrattamenti e le violazioni dei diritti umani dei migranti. Lo stesso avviene anche al confine tra Marocco e Spagna, le associazioni che si occupano di diritti dei migranti hanno denunciato che, nei giorni scorsi, quattro migranti sarebbero stati ammazzati a bastonate per opera della polizia marocchina mentre la polizia spagnola guardava senza intervenire. Su questa linea di frontiera che si sta costruendo nella sponda sud del Mediterraneo si vede il livello di civiltà di un continente, quello europeo, che non può limitarsi a guardare inerte il lavoro sporco degli altri per poi sbandierare al resto del pianeta i suoi principi in materia di diritti umani.
Violencia, ilegalidad e impunidad sin límites en la frontera de Melilla. from Asociación Pro.De.In. Melilla on Vimeo.