Al di là di tutto e delle bandiere che tornano in soffitta, mi domando se abbiamo un tale bisogno di eroi da cercarli nel primo (o ultimo) venuto calciatore. Basta una prodezza o una prodezzina che già quella ha un soprannome da almanacco. Basta un gol e vai col tweet. Guardo i calciatori doloranti a terra quando fingono di esser stati uccisi a una caviglia. Li guardo rotolarsi come fossero feriti a morte da un rigore non concesso, li vedo deformarsi in smorfie di dolore che un lutto non saprebbe fare peggio, li osservo contorcersi come lombrichi per un fallo simulato che mi aspetterei un’amputazione.
Stando così le cose il prato dovrebbe essere un campo di battaglia, ma è solo un palco dove gli attori sono un po’ patetici e sanno di poter contare su un pubblico plaudente. Opinionisti stipendiati raccontano il nulla tra i fili d’erba, erigono miti da figurine dei calciatori giacché l’età non gli consente più di fare quello per cui erano in gioventù predisposti: correr dietro a una palla. Noiosi come una pelle satura di tatuaggi.
Abbiamo urgente bisogno di eroi, che troppo in fretta mettiamo sul piedistallo senza dar loro il tempo di saper stare in sella. Un attimo dopo li abbattiamo perché non hanno saputo trasformare i nostri sogni nel biglietto vincente della lotteria. Un part-time in fabbrica li renderebbe più credibili, nel dolore come nel sudore.
Non c’è dignità in tutto questo ma calciatori pagati profumatamente che si esibiscono in funamboliche simulazioni. Per loro non c’è alcuna vergogna nel fingere l’agonia del dolore inesistente. Sfiorati dagli avversari crollano trafitti, ma graziati dal senso dello sport per il denaro si rialzano come se nulla fosse e, miracolo, camminano. E noi dietro.