La bufera che ha acompagnato le dichiarazioni del prefetto (ormai ex) di Perugia Antonio Reppucci sulle madri dei consumatori di droga e la successiva defenestrazione del funzionario ad opera del governo, riaprono una questione vecchia quanto la Costituzione: quello del prefetto, oggi, è davvero un ufficio del quale non si può fare a meno?
A giudicare dai resoconti dell’acceso dibatto in Assemblea Costituente, che il prefetto fosse figura sacra, indispensabile ed inviolabile , lo dubitavamo in molti già allora: Luigi Einaudi, con lo pseudonimo Junius cosa pensasse lo aveva scritto addirittura in un celebre articolo pubblicato sulla Gazzetta del Ticino, dall’eloquente titolo “Via il Prefetto!”.
L’Assemblea, in virtù di questi contrasti, scelse di non inserire riferimenti espliciti alla figura del prefetto. Richiamando, invece, le sue competenze in maniera molto generica all’art.13 e all’art.17 della Costituzione e rimandandone poi la definizione alla legge ordinaria. Il TULPS, all’art.1 ereditato dal ventennio (e mai modificato), attribuisce appunto al prefetto il ruolo di “autorità di pubblica sicurezza” e ne elenca le funzioni. Quali sono queste funzioni? Sul piano territoriale, possiamo dire tutte: “in ambito provinciale, il prefetto si trova in una posizione di supremazia nei confronti di tutti gli organi periferici dello stato, grazie alla generale potestà di vigilanza ed intervento su tutta l’amministrazione pubblica a livello locale.” Oltre alle attribuzioni in materia di pubblica sicurezza vanno ricordate quelle in materia di sanzioni amministrative, circolazione stradale, immigrazione, protezione civile. Il prefetto è la più alta autorità dello Stato nella provincia. “
Che l’esercizio di questo immenso potere “monocratico-territoriale” confligga oggi, in epoca di società “liquida” e di “istituzioni partecipate”, con la democrazia più di quanto non facesse sessant’anni fa è reso ancora più evidente da episodi come quello della scorsa settimana. Ma andando indietro, qualcuno ricorda ancora quando il prefetto (oggi in pensione) di Napoli, Andrea De Martino, urlò e imprecò all’indirizzo del prete anti-camorra che aveva osato chiamare la prefetto di Caserta “signora” e non “signora prefetto”.
L’impressione è che il prefetto, come figura, non possa fare a meno, ancora oggi di celebrazioni di dubbio gusto, retaggio ormai (e per fortuna) di epoche lontane “quando ognuno doveva stare al proprio posto” e mostrare sottomissione all’autorità. Nel corso di quel siparietto decadente, irritante e carico di simbolismi, l’autorità sovrana schiaffeggiava verbalmente il popolo e l’ignoranza lessicale del popolo (in nome del popolo, ovviamente) per punire cosi il reato di lesa maestà perpetrato dal prete di strada. E lo faceva proprio usando un tono “cafonal” che ricorda molto da vicino lo “strunz” e il monologo dialettale, impiegati dell’ex prefetto Reppucci; quest’ultimo, però, a differenza del collega in pensione, non si è limitato ai toni ma ha tenuto banco trasformando la conferenza stampa in un comizio. Se da un lato De Martino si era rivolto a don Patriciello con la stessa grazia di un landlord inglese ottocentesco alla servitù, dall’altro il pilotto pedagogico di Reppucci, con in allegato la memorabile metafora reganiana della “guerra alla droga” esce dall’alveo del semplice cattivo gusto istituzionale; saranno state pure le tinte forti del dialetto a giocargli lo scherzo che gli è costato il posto ma a parte il grottesco linguaggio, tra teste tagliate, madri suicidate e figli da prendere a schiaffi per una canna, c’è da chiedersi se effettivamente qualcuno, nel governo, si preoccupi di verificare l’attività sul territorio dei prefetti.