La proposta del primo ministro arriva dopo le offese di un deputato del suo partito rivolte a una collega che chiedeva migliori retribuzioni per le donne. Ma chi si occupa di discriminazione non crede che le promesse diventeranno realtà
Alla fine ti fa pure pena, Shinzo Abe. Non deve essere facile, neanche per un politico di razza come lui, dover annunciare al mondo che il Giappone deve puntare sulle donne, rispettarle, proteggerle e farle lavorare di più ma retribuendole decentemente. E farlo nel giorno in cui un deputato del suo stesso partito chiede finalmente scusa davanti alle telecamere ad una collega che pochi giorni prima ha più volte interrotto, insultato e ridicolizzato mentre chiedeva la stessa cosa durante una seduta del consiglio comunale di Tokyo. “Finiscila, sposati in fretta, piuttosto” e poi: “cos’è, non riesci a far figli”? Cose che in Giappone molti pensano ancora, per carità, ma che in pubblico dopo la scomparsa politica dell’ex governatore Shintato Ishihara pochi si azzardano a dire apertamente.
Non deve essere facile, per Shinzo Abe, annunciare al mondo che la sua Abenomics, già col fiato in gola prima ancora di scoccare la “terza freccia”, marcia con il vento in poppa, quando persino la Banca Centrale del Giappone, al cui vertice siede il suo amico di lunga data Haruhiko Kuroda, ammette che l’eventuale crescita non supererà, quest’anno, lo 0.2% (contro lo 0.5% previsto) e che per parlare di vera ripresa si potrebbe dover aspettare altri dieci anni. E non deve essere facile mostrare i muscoli alla Cina e alla Corea, quando l’annunciato “grande balzo in avanti”, la revisione costituzionale che consentirebbe al Giappone di avere finalmente delle forze armate “autonome”, è per l’ennesima volta svanito, dopo l’improvviso, quanto provvidenziale, altolà del partito Komei, braccio politico del movimento laico buddista Soka Gakkai. Non l’ha ancora detto chiaro e forte, il Komeito, ma la base preme, e come non sarà facile per Abe far ripartire le centrali nucleari, così non sarà facile modificare la Costituzione, quanto meno per quanto riguarda l’articolo 9, quello che vieta al Giappone di possedere forze armate e rinuncia addirittura al diritto di belligeranza.
Non deve essere facile, insomma, per Abe, “vendere” al mondo l’isola che non c’è. L’isola, o meglio l’arcipelago, è il Giappone. Che c’è ancora, per carità. Ma sta abbastanza male e rischia di star sempre peggio se continuerà a credere alle promesse – diciamo pure alle frottole – di Abe e del suo governo. Dopo aver incassato un anno prima di annunciarla ufficialmente – facendo guadagnare i soliti noti, non certo i piccoli investitori che in Giappone sono molto cauti e non giocano in Borsa – i “dividendi” politici e finanziari della sua Abenomics, il premier giapponese si è presentato ieri davanti alla stampa nazionale e straniera per annunciare l’ultima fase del suo “pacchetto” di riforme, la famosa “terza freccia” del suo feretro pseudoneo-keynesiano.
Women empowerment, è il nuovo slogan, così, in inglese, tanto per far finta che si fa davvero sul serio. E invece no, non si fa sul serio. “Se il governo avesse davvero intenzione di rivoluzionare il mercato del lavoro e favorire l’inserimento delle donne – spiega l’avvocato Mami Nakano, nota per aver in passato ottenuto sentenze “storiche” contro l’imperante discriminazione subita dalle donne sul posto di lavoro – riformerebbe l’iniquo sistema fiscale e farebbe applicare con rigore le leggi già esistenti. Le donne non hanno bisogno né di elemosine, né di sussidi. Hanno semplicemente il diritto di essere retribuite decentemente e di non essere punite fiscalmente se lavorano”.
In Giappone i redditi fino a un milione e 300 mila yen (un po’ meno di mille euro, al cambio attuale) non sono tassati. Appena lo si supera, scattano le aliquote. Poca cosa, rispetto a quelle cui siamo abituati in Italia, ma si tratta comunque di trattenute fino al 10%, tra tasse e contributi, e quello che è peggio, se si è sposati, è che vanno a cumularsi con il reddito principale. Se a questa iniquità fiscale si aggiunge la mancanza di adeguate strutture per la prima infanzia e una diffusa mentalità – raramente ammessa ma di fatto ovunque applicata – per cui le donne, destinate prima o poi a sposarsi e a fare figli, non sono “affidabili”, si capisce perché l’ultima “freccia” di Abe appare la più spuntata di tutte.
In tutto questo, un guizzo renziano: il governo ha annunciato un contributo “una tantum” per le famiglie “bisognose” di 10 mila yen, l’equivalente, guarda caso, circa 80 euro. Ancora non è chiaro quando e come verranno elargiti, e soprattuto chi ne avrà diritto. Ma visti i tempi, è l’iniziativa è stata accolta con favore dall’opinione pubblica. Visto che Abe ha incontrato Renzi poche settimane fa a Roma, ho chiesto se per caso ne avessero parlato in quella circostanza, ma un funzionario mi ha risposto, decisamente indispettito, che si tratta di una misura già adottata anni fa, ai tempi del premier Aso. In effetti è vero, e anche allora la misura era stata adottata su pressione del Komei, il partito di cui Abe ha ancora bisogno se vuole restare in sella. Allora è Renzi che ha copiato dai giapponesi?