Procederò dunque con metodo empirico e per tentativi:
1) La riforma del Senato serve a risparmiare? Ahimè no. Il risparmio dovuto all’azzeramento delle indennità dei senatori è in realtà molto contenuto, almeno ove si considerino i costi complessivi della macchina amministrativa: anche se immaginassimo “senatori a costo zero”, l’onere totale per Palazzo Madama scenderebbe dagli attuali 541 milioni a circa 500 milioni l’anno. Meno del 10%, insomma. Sarebbe a questo punto decisamente più conveniente ridurre la busta paga dei parlamentari di entrambe le Camere o ridurne alla metà il numero complessivo.
2) La riforma del Senato serve a fare in modo che a votare la fiducia al Governo sia solo la Camera ed evitare dunque che si formino maggioranze diverse tra un ramo e l’altro del Parlamento? Se fosse davvero questo il problema ci si limiterebbe a riformare l’art. 57 co. 1 della Costituzione – ove si dice che il Senato, al contrario della Camera, è eletto “su base regionale” – e l’art. 58 – ove si differenziano i requisiti di elettorato attivo e passivo. Così facendo si avrebbe un’unica regola elettorale, un solo risultato e una sola maggioranza in entrambi i rami del Parlamento (ammetto tuttavia che un testo partoribile in 20 minuti può non essere sufficiente a soddisfare l’ego riformatore degli attuali Padri della Patria).
3) La riforma del Senato serve a fare finalmente la Camera delle Regioni? E che ci facciamo con la Camera delle Regioni? Non abbiamo già i Consigli Regionali, le Giunte Regionali, le delegazioni regionali a Roma e Bruxelles, la Conferenza Stato-Regioni? Ci serve proprio un altro consesso dove le dottissime classi dirigenti locali possano dedicarsi al cazzeggio organizzato? A questo punto paghiamogli pure la crociera, che spendiamo meno.
4) La riforma del Senato serve a eliminare il bicameralismo perfetto e ad approvare le leggi più velocemente? Non crederete alla bubbola della doppia lettura che richiede troppo tempo e inceppa il potere legislativo? La realtà è tutt’altra e dimostra che l’iter di approvazione delle leggi può seguire due distinte strade la cui velocità è del tutto indipendente dal bicameralismo. Se le leggi sono d’iniziativa governativa (e il governo si mette davvero in testa di farle passare) non c’è pastoia parlamentare che valga a fermare la macchina: si approvano e basta, con tempi medi strettissimi (130 giorni). Se invece l’iniziativa non è governativa, ecco che i tempi diventano pachidermici (600 giorni) e, soprattutto, le probabilità di successo sono molto più ridotte.
Che vuol dire? Beh vuol dire che la storiella berlusconiana del governo Italiano“privo di poteri” è solo una storiella, appunto, e che, di conseguenza, riformare il Senato per attribuirgliene di più è democraticamente sbagliato e politicamente inaccettabile. Se poi si pensa che l’unica soluzione alla perenne crisi di relazione tra i clan che infestano la partitocrazia italiana sia l’emarginazione del Parlamento dai processi decisionali (alla maniera del Parlamento Europeo, per intenderci), si abbia almeno l’onestà di ammettere che si propone la decapitazione come cura per il mal di testa. E basta chiacchiere. Insomma proprio non riesco a trovare un senso a questa benedetta riforma. Credo che dovrò pensarci ancora un bel po’…
Ecco dopo una pausa di mezz’ora forse ho capito: la riforma del Senato serve a rendere il Senato non elettivo! Ed è un’idea geniale! Pensateci, esiste forse un sistema migliore per farla finita una volta per tutte con la noiosissima storia “preferenze sì/preferenze no” della radicale eliminazione del voto popolare? Decisamente no. Rimane solo un ultimo appunto (da fare assolutamente anche per evitare che questa magistrale opera d’arte scivoli sulla cornice): posto che la dizione “Partito Democratico” mi sembra vagamente in contraddizione con questa sfrenata ed eroica lotta contro il suffragio universale, non è che nella riforma riusciamo a ficcarci anche un bel cambio di nome?