Se grazie ai suoi movimenti contadini l’Ecuador è stata la prima nazione nella storia ad introdurre la sovranità alimentare nella Costituzione, l’Inghilterra è stata la prima in Europa ad ospitare in Parlamento una sua proposta di legge. E’ accaduto il 12 giugno, quando il gruppo non governativo del APPG on Agroecology ha proposto il proprio disegno di legge. Come era prevedibile, e a differenza dell’Ecuador, la proposta non ha avuto molto seguito, ma ciò rimane una prova inconfutabile di come la giovane formazione di Via Campesina che nel ‘96 definiva per la prima volta la “sovranità alimentare” abbia fatto parecchia strada, e stia iniziando ad essere presa sempre più seriamente e come esempio nel mondo.
Non è un caso che questo tema venga per la prima volta affrontato nelle istituzioni inglesi. Negli ultimi decenni sono stati numerosi i progetti incentrati sul rinnovamento delle comunità locali, movimenti spontanei come quello di Transizione per esempio, impegnati attivamente nel recupero della resilienza nel territorio, che stanno giocando un ruolo fondamentale in questo processo.
“Chi controlla il petrolio controlla le nazioni, chi controlla il cibo controlla il popolo” queste furono le parole di Kissinger, ex Segretario di Stato Usa, e in esse risiede appunto l’essenza dell’idea. I promotori della sovranità alimentare ritengono che il cibo non sia una merce qualsiasi, ma un elemento base della vita, e che i popoli debbano riserbarsi il diritto di definire le proprie politiche alimentari in risposta ai bisogni delle comunità e dei singoli, e non principalmente delle logiche di mercato. Purtroppo questo tema, pur essendo dibattuto, non ha praticamente rilievo all’interno del panorama politico nazionale italiano.
Nonostante l’agroalimentare sia uno dei settori con le più alte percentuali di export, anche la situazione italiana non è infatti delle migliori. Viviamo in una penisola, al cospetto di un mare tra i più invidiati al mondo, disponiamo delle due più grandi isole del Mediterraneo ma importiamo il 60% del pesce dall’estero. Siamo il paese della pasta e della pizza, produciamo il 220% della pasta rispetto al fabbisogno ma importiamo il 35% e il 62% di grano duro e tenero. Allo stesso modo i nostri formaggi hanno fama internazionale, ne produciamo ben il 134% rispetto al necessario, ma disponiamo di solo il 44% del latte interno. In tutto ciò molti pastori italiani si ritrovano paradossalmente costretti a buttare via il latte in eccesso perché l’offerta è superiore alla domanda.
Anche Haiti può essere vista come un caso di studio. L’importazione del riso di Miami ha condotto migliaia di contadini ad abbandonare le campagne. Nel 2008 le importazioni di riso raggiunsero l’80% e il prezzo triplicò, accrescendo maggiormente la situazione di disagio e divenendo praticamente impossibile per l’haitiano medio potersi permettere il riso localmente prodotto, del quale poco tempo prima era autosufficiente.
Nel 2011 più di 400 persone provenienti da 34 paesi europei si sono riunite in Austria per pianificare lo sviluppo di un movimento europeo per la sovranità alimentare. Le azioni in Europa sono proseguite e se Monsanto ha rinunciato agli ogm in Europa è infatti grazie ai movimenti popolari, non certo grazie all’intervento dei governi.
Dal ‘98 in Europa è presente una direttiva comunitaria che vieta la circolazione di sementi tradizionali che non siano iscritte al catalogo ufficiale europeo. Nel 2012 un’associazione francese che si batte per la biodiversità, la Kokopelli, è stata sanzionata con 100mila € di danni e la cessazione di tutte le attività per aver commerciato sementi antiche e tradizionali non iscritte al catalogo. Inizialmente la Corte di Giustizia aveva sentenziato che: “L’assenza di una semente dal catalogo non è indice del fatto che non sia ‘buona’, perché le norme che ne regolano l’iscrizione non riguardano alla futura salubrità delle piante, ma a logiche commerciali” e quindi ad una maggiore produttività, non certo ad una migliore qualità, sicurezza o identità del prodotto.
Non parliamo di una ricerca ossessiva del prodotto fatto totalmente di materie prime nostrane, non si tratta di un regime alimentare autarchico, ma del riconoscimento e della valorizzazione di risorse e potenzialità di cui disponiamo nel territorio e che vengono abbandonate nel tentativo di assecondare i bisogni del mercato globale, i quali finiscono per definire le stesse politiche alimentari, sgretolando il tessuto socio-economico delle comunità locali.
di Gian Luca Atzori