Il Presidente scrive che la garanzia dell'indipendenza non vale per i singoli Pm ma per gli Uffici nel loro complesso. Ma le cose non stanno così. I proteri del Procuratore capo non devono sconfinare nell'arbitrio
Sono le azioni che tradiscono il pensiero. Prendiamo ad esempio la lettera che Napolitano ha scritto al vicepresidente del Csm Vietti.
Questi se la porta al plenum: “Il Presidente della Repubblica mi ha mandato una lettera che però voi non dovete leggere; vi basti sapere che, secondo lui, il Procuratore della Repubblica ha ampi poteri per via della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario”. La maggior parte dei componenti del Csm, autonomi e indipendenti quanti altri mai e che evidentemente tutto ignora di questa riforma, butta nel cestino gli interventi già preparati e ne scrive altri in esito ai quali l’esposto di Robledo contro Bruti Liberati viene archiviato. Dopo una decina di giorni di ritardo, la lettera è pubblicata sul sito del Quirinale. Il Presidente Napolitano, pur avendo a suo tempo “ritenuto opportuno considerare riservata la missiva, ritiene utile renderne ora noto il contenuto”. Lui è fatto così, fa quello che gli pare, quando gli pare. In realtà si è comportato proprio come Bruti: ieri mi andava bene che Robledo trattasse i processi per reati contro la PA; oggi non mi va più. Perché? Fatevi i fatti vostri.
Con questa concezione autoritaria del ruolo non c’è da meravigliarsi che il contenuto della lettera sia del tutto illogico e contraddittorio: motivare i pregiudizi è una cosa complicata. “Mi preme sottolineare che, a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza “interna” del Pubblico Ministero riguardano l’ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato”. Trattasi di frase incomprensibile. Napolitano sottolinea, le virgolette sono sue, che sta parlando di indipendenza “interna”; cioè indipendenza nei confronti di altri magistrati o uffici o enti appartenenti all’ordine giudiziario. Cosa diversa dunque dall’indipendenza “esterna”, che si ha nei confronti di Parlamento, Governo, lobbies etc. Come possa “l’ufficio nel suo complesso”, una Procura della Repubblica, vedere insidiate le sue garanzie di indipendenza “interna” non è dato capire. Un Tribunale, una Corte d’Appello o di Cassazione possono dissentire dall’operato di un Pm; e quindi assolvere in luogo di condannare (o viceversa). Ma in nessun modo è possibile che insidino le prerogative di indipendenza dell’Ufficio. Che in effetti non esistono: una Procura (e anche un Tribunale, una Corte) non possono essere destinatari di comportamenti che pregiudichino le loro prerogative di indipendenza; non ne hanno. Chi le ha sono i singoli magistrati che li compongono. Sono loro a dover essere tutelati, non l’Ufficio nel suo complesso.
Questa frase non è solo incomprensibile. È anche sbagliata quando contesta che la modifica dei principi organizzativi dell’Ufficio possa tradursi in violazione delle garanzie di indipendenza dei singoli Pm. “Ciò che deve caratterizzare gli Uffici di Procura è l’impersonalità e l’unitarietà della loro azione, sicché i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell’azione penale da parte dell’Ufficio nel suo complesso”. E chi lo nega. È noto che in udienza l’accusa può essere sostenuta da un Pm diverso da quello che ha svolto le indagini e che un interrogatorio svolto da un Pm diverso da quello titolare del fascicolo non è nullo. Ed è del tutto ovvio che i criteri organizzativi devono essere elastici per forza, pena la paralisi dell’ufficio: arrivano 100 grossi processi per reati contro la PA, i 10 poveri Sostituti che fanno parte di quel Gruppo non ce la fanno, si trasferiscono altri 10 Sostituti dagli altri gruppi per il tempo necessario.
Ma il problema sta appunto lì: ci deve essere una ragione per cui i criteri organizzativi sono modificati; e deve essere esplicitata. Altrimenti si cade nell’arbitrio. Che è, ovviamente, pericolosissimo. Immaginiamo che un Procuratore sia convinto che l’Amministratore di una società, accusato di corruzione, sia innocente; e immaginiamo che sappia che l’Aggiunto competente lo consideri colpevole. Non può semplicemente affidare il processo a un altro Pm senza spiegare le ragioni del suo provvedimento. Sarebbe del tutto legittimo che dicesse (anzi scrivesse): “Caro collega ho letto attentamente gli atti e credo che la tua decisione non sia corretta per questo e quest’altro motivo; siccome mia è la responsabilità della conduzione delle indagini in questa Procura, assegno il processo al Pm …(o a me stesso) per evitare quello che credo sia un errore”. Ma sottrarglielo senza adeguata motivazione non può essere lecito. Pensate se la revoca dell’assegnazione fosse dovuta al desiderio di favorire un imputato o compiacere una parte politica. Davvero saremmo contenti di un potere incontrollato che permettesse a un Procuratore di fare tutto quello che vuole? Insomma, quello che proprio non sta nelle corde di Napolitano, è la trasparenza. Oggi, quando – non si sa perché – decide di rendere conoscibile la lettera che ieri voleva tenere riservata. L’altro ieri, quando fece fuoco e fiamme perché si derogasse al codice di procedura solo per lui e si distruggessero le intercettazioni delle sue telefonate, anche in pregiudizio delle difese degli altri imputati che avrebbero potuto avere interesse (processuale) a conoscerle. Della serie: state contenti umane genti al quiz – che se potuto aveste veder tutto – mestier non era partorir Maria.
Da Il Fatto Quotidiano di domenica 29 giugno 2014