Ci sono poche certezze nella vita, ma una cosa è sicura: il prosciutto di San Daniele si riconosce (quando è intero) dalla presenza dello “zampino”. Lo ripetono di continuo ad Aria di festa, la manifestazione in onore di uno dei salumi più famosi d’Italia, organizzata nel paese friulano in provincia di Udine ininterrottamente da trent’anni. Raccontarla come una semplice sagra di paese sarebbe vergognosamente riduttivo: in un centro di ottomila abitanti arrivano in quattro giorni duecentomila persone, pronte a mangiare oltre due milioni di fette di prosciutto.

Ricchissimo il programma di eventi: concerti gratuiti di livello nazionale (quest’anno si sono esibiti Malika Ayane, Omar Pedrini, Giuliano Palma), approfondite degustazioni guidate, rilevanti mostre fotografiche, una divertente fattoria didattica per i bimbi ma anche una esclusiva lounge per chi vuole vivere la notte. E per il trentesimo compleanno della festa, gli organizzatori hanno deciso di coinvolgere altri prodotti DOP e IGP italiani, in collaborazione con Aicig (Associazione Italiana consorzi Indicazione Geografica), proponendo anche Aceto balsamico di Modena, Gorgonzola, Grana padano, Mozzarella di bufala campana, Bella della Daunia, Pane di Altamura, pomodoro Pachino e Quartirolo Lombardo. Madrina dell’edizione 2014 di Aria di festa è stata la conduttrice e attrice Giorgia Surina, che, oltre ad avere avuto l’onore di tagliare ufficialmente la prima fetta di prosciutto durante l’inaugurazione, ha potuto visitare alcuni stabilimenti, rimanendone entusiasta: «Il nome di San Daniele è famoso nel mondo e tutti i produttori continuano a rispettare attentamente la tradizione e l’originalità del marchio, proteggendolo e promuovendolo. Anche i giovani e i ragazzi iniziano ad interessarsi al settore dell’enogastronomia, ma si potrebbe accrescere questa passione a livello nazionale con una formazione specifica sulla qualità dei cibi per aiutarli a comprendere le differenze».

Il prosciutto, a San Daniele, è sempre il protagonista, non soltanto durante i giorni della festa: crea lavoro, direttamente e indirettamente, per almeno diecimila persone, con un fatturato complessivo di circa trecentotrenta milioni di euro. I trentuno produttori si trovano tutti nel territorio comunale e sono tenuti a seguire le rigide indicazioni del disciplinare: alla carne, selezionata fin dall’origine, viene aggiunto soltanto il sale. Nient’altro: né additivi né conservanti. Il resto è fatto dal lavoro dell’uomo (con un massaggio continuo alle carni e una sapiente capacità di cura), dal tempo (almeno tredici mesi di stagionatura prima che venga applicato il marchio) e dal microclima della zona. Pare che già i Celti riconobbero in questi luoghi le condizioni ideali per conservare le carni. E in effetti, il San Daniele è San Daniele semplicemente (si fa per dire) perché i venti freddi delle Alpi Carniche si incontrano con la brezza tiepida che arriva dal mare Adriatico, mentre il corso del fiume Tagliamento che lambisce la collina agisce da termoregolatore naturale.

Una volta, gli abitanti della zona lasciavano le finestre aperte e la carne, seguendo il ritmo delle stagioni, diventava (quasi magicamente) prosciutto. Ora la tecnologia permette di garantire temperatura e umidità corretta nelle celle, ma per il resto in metodo rimane sostanzialmente artigianale. Un metodo che continua a funzionare: «Ci sono stati mesi di difficoltà – spiega il presidente del Consorzio San Daniele, Vladimir Duknevich – ma grazie a un supporto mutualistico di tutti i produttori, siamo riusciti a uscire dalla crisi. Dall’inizio dell’anno le vendite del nostro prosciutto sono cresciute del dieci per cento, le vaschette confezionate in alcuni casi addirittura del venti per cento. Lavoriamo costantemente per elevare la qualità minima: il nostro peggiore prodotto deve essere eccezionale. In questo modo portiamo avanti tradizione e cultura ma anche un sistema economico importante e sostenibile». Insomma, pare andare tutto per il meglio, ma, secondo Duknevich, «come italiani siamo i migliori produttori ma i peggiori venditori del mondo: dobbiamo imparare da chi, all’estero, non ha prodotti validi come i nostri ma riesce comunque a valorizzarli al meglio. Imparando a fare sistema».

di Danilo Poggio

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