Telecamere al posto del costosissimo (e vistoso) laser di Google per ottenere lo stesso risultato: l'auto a guida autonoma. Intervista al professor Alberto Broggi, che con i suoi ricercatori collabora con le aziende di mezzo mondo. "Peccato", dice, "che i brevetti rimangano alle aziende straniere che ci finanziano"
A Parma c’è un piccolo centro di ricerca, 26 persone in tutto, che da vent’anni studia l’auto a guida autonoma. “All’inizio eravamo ‘quei matti che credono nell’auto che guida da sola’, poi Google ha mostrato che la nostra era un’ambizione ragionevole”, dice al fattoquotidiano.it il professor Alberto Broggi (nella foto, in piedi davanti all’auto) presidente e amministratore delegato di VisLab, la start-up dell’Università di Parma che si occupa di visione artificiale e sistemi intelligenti. Il Vislab, diventato famoso nel 2010 per avere percorso Parma-Shanghai a bordo di veicoli a guida autonoma, ha collaborato con case automobilistiche come Nissan, Renault, Tata, Volkswagen, Daimler e ha contatti con Google e Bosch.
Professor Broggi, qual è la differenza fra il programma di guida autonoma di Google e il vostro?
Il nostro obiettivo è costruire un veicolo a guida autonoma che utilizzi sensori a basso costo e facilmente integrabili nella vettura. Google utilizza un sensore fantastico, il migliore in questo momento, ha 64 fasci laser, fa 10 rivoluzioni al secondo per individuare gli oggetti, però costa 70.000 dollari. E poi deve essere montato il più possibile in alto, tant’è vero sui loro prototipi sporge sempre dal tetto. Noi proviamo a ottenere un risultato simile con sensori a basso costo, cioè con semplici telecamere: la dotazione di un veicolo in fase prototipale costa meno di mille euro per ogni sistema. Le telecamere, inoltre, sono piccole e si possono nascondere: nel nostro ultimo prototipo Deeva ne abbiamo montate una ventina, ma non si vedono. Secondo noi, le telecamere sono la tecnologia più promettente, nonostante l’elaborazione di un’immagine sia più complicata dell’analisi dei dati raccolti dai laser. Abbiamo bisogno di più capacità di calcolo, ma sono convinto che in futuro le auto useranno le telecamere.
E per quanto riguarda le mappe?
Chiunque lavori alla guida autonoma ha bisogno delle mappe. Solo che mentre le nostre sono semplici, quasi solo topologiche, quelle di Google sono dettagliatissime: a Mountain View hanno mappato tutto con grande dettaglio, prendendo nota di ogni marciapiede e paletto. Anche in questo caso si tratta di due filosofie diverse: loro puntano sui “big data”, enormi masse di informazioni che poi però vanno tenute aggiornate. La nostra è una mappa poco densa, quindi molto più snella, ma che richiede maggiori capacità interpretative da parte del veicolo.
Alcuni manager del mondo dell’auto, come Carlos Ghosn di Renault-Nissan, prevedono di vendere auto a guida autonoma entro il 2020, o addirittura il 2018. Che cosa ne pensa?
È facilissimo fare previsioni se non si entra nello specifico. Se parliamo di guida autonoma in autostrada, per il 2020 ce la facciamo. Si può anche immaginare che entro quell’anno in autostrada esista una corsia riservata ai veicoli a guida autonoma. Se invece parliamo di un veicolo autonomo che ti conduce da porta a porta, allora servono almeno un’altra ventina d’anni, perché il panorama urbano è molto complesso da affrontare. Noi abbiamo eseguito un percorso dimostrativo di 13 km dall’università al centro di Parma, ma è stato uno sforzo immane. E poi non dimentichiamo che ci può sempre essere l’imprevisto, l’ostacolo improvviso, il bambino che si butta in strada, il camion che perde il carico: situazioni rarissime, ma pericolose e non programmabili.
Uno dei nodi principali delle auto a guida autonoma sembra essere il problema della responsabilità: in caso di incidente, di chi è la colpa? È questa la sfida maggiore da affrontare?
Questo è un bel problema, ma ancora più degli aspetti legislativi, che si possono risolvere prendendo una decisione – “la colpa è di chi progetta l’auto” oppure “la colpa è comunque del guidatore” – mi preoccupano quelli etici. Dovremo imparare a programmare le auto perché, in caso di emergenza, si comportino in un modo piuttosto che in un altro, ma la scelta non è sempre facile. Facciamo l’esempio di un gruppo di bambini che si butta in mezzo alla strada e non c’è lo spazio sufficiente per evitarli: l’auto deve investire i bambini, oppure buttarsi di lato e prendere qualcuno sul marciapiedi? Dobbiamo iniziare a contare le vite, a dare dei pesi? Oggi si agisce d’istinto e poi si pagano le conseguenze, ma se dovremo programmare questo tipo di scelta ci troveremo di fronte a situazioni in cui nessuno saprebbe decidere come comportarsi.
Chi sovvenziona il Vislab? L’Università?
No, la nostra sede è dentro al complesso universitario, abbiamo un sano scambio con l’Università di Parma, di cui sono anche docente, ma non riceviamo alcuna sovvenzione. Purtroppo non siamo nella situazione di altre università, specialmente quelle tedesche, che lavorano grazie a grossi progetti nazionali finanziati dal governo: noi ci manteniamo con agli investimenti delle aziende. Anzi, devo dire che per essere così piccoli, ed essere tutti tecnici con poco attitudine al business, stiamo facendo cose straordinarie e stiamo ottenendo dimostrazione di interesse da parte di grandi aziende di tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti. Il nostro vantaggio, probabilmente, è quello di avere iniziato molto presto e quindi di avere accumulato molta esperienza nel campo, che ora si rivela preziosa. Purtroppo, però, i nostri finanziatori sono quasi tutti stranieri. Negli ultimi anni qualcosa si sta muovendo anche in Italia, per esempio Magneti Marelli sta creando un centro di ricerca sul veicolo autonomo con noi e collaboriamo anche con Case New Holland del Gruppo Fiat. Ma la maggior parte dei brevetti finiscono ancora in mano alle aziende straniere che pagano la ricerca. Col Vislab siamo riusciti meno ad arginare la fuga dei cervelli, ma non la “fuga dei brevetti”.