Se sei una donna sola in difficoltà e ti sei rivolta ai servizi sociali, potresti ritrovarti a essere trattata come una bambina in collegio. E se rientri dopo le 18, niente cena. Non è un sogno, ma una realtà comune nella penisola tutta vissuta sulla pelle di chi l’autonomia non se la può permettere. Donne senza appoggi costrette a entrare nelle strutture comunali per avere un tetto sulla testa per loro e per i loro figli ma che, dopo qualche settimana, ne escono, preferendo dormire tra i cartoni piuttosto che sopportare la stessa prigione da cui sono scappate, magari fuggendo da compagni e mariti violenti.
A Firenze tredici di loro hanno trovato una soluzione alternativa alle strutture del Comune giudicate inadeguate, dando inizio al primo esempio di occupazione al femminile in Italia. “Tutte noi abbiamo avuto delle brutte esperienze nelle strutture. È come stare in una gabbia – spiega Francesca, 47 anni, una delle protagoniste del progetto nato per iniziativa del Movimento di Lotta per la Casa di Firenze e ora arrivato al settimo mese di vita. – Gli operatori mi stavano continuamente addosso. Non avevo privacy. Non potevo neanche prepararmi un caffè. Non era vita”.
Le “Magnifiche tredici”, come sono state ribattezzate da queste parti, hanno occupato prima un piano di uno stabile ex Fiat in via Pier Capponi per poi spostarsi, dopo lo sgombero del cinque giugno, in zona Novoli, in via Bardazzi 4, all’hotel Concorde sfitto dal 1999 e concesso temporaneamente dalla coppia di proprietari. Poco per volta costruiranno nuove cucine, ridipingeranno le pareti, sostituiranno i sanitari e, tra qualche mese, riaprirà anche lo sportello gratuito di consulenza legale per donne che hanno subito violenza.
Il gruppo è eterogeneo: italiane, romene, nigeriane, marocchine… e, pare, anche cuoche degne di Master Chef. L’età va dai venti ai sessant’anni più quattro bambini di 12, 8, 5 anni e uno in arrivo a dicembre. Tredici storie sottratte al destino di strada. Alessia e Silvia, per esempio, hanno subito uno sfratto. Barbara è emigrata in Italia dalla Romania per fare la badante a Bologna e, dopo che il suo assistito è mancato, dormiva alla stazione o sui treni.
Dopo lo sgombero, due settimane fa, il comune ha offerto loro di tornare nelle strutture, ma hanno risposto compatte: no. Preferiscono ricominciare l’occupazione da zero, munirsi di martello e trapano per sistemare i locali dell’albergo e trovare una loro dimensione. Offrire ai figli una casa vera, non letti a castello in stanze buie. E poi meglio stare lontano dagli assistenti sociali. Con l’approvazione del nuovo piano casa Lupi, che nega la possibilità di ottenere la residenza nei luoghi occupati, infatti, molte di loro, senza lavoro o con lavori in nero, rischiano di vedersi togliere i figli, di non poterli iscrivere a scuola. “È un ricatto. Se io non ho lavoro perché non c’è e non posso permettermi gli affitti alti che ci sono qui a Firenze come in qualunque altra grande città, non significa che non sia una buona madre” spiega Erica Guazzi, 26 anni, nel movimento fin dagli inizi. Molte di loro mancano dei requisiti per vedersi assegnata una casa popolare, case che scarseggiano anche per chi è in cima alle liste. “È una situazione grave. Il fatto che io non abbia grandi entrate, non giustifica un’esclusione sociale”.
Senza questa occupazione starebbero passando da una struttura all’altra senza stabilità in quella che definiscono “via crucis della sofferenza”. Samantha, 39 anni fa la cameriera e la barman. Ha un lavoro con un contratto a chiamata non ce riesce a pagare l’affitto. Da coordinatrice del progetto di occupazione al femminile, si è ritrovata a viverlo in prima persona. Ormai è da nove mesi che è parte di questa famiglia allargata, una rete necessaria di questi tempi liquidi. C’è solidarietà, sorellanza. “Tra donne – assicura Samantha – ci si capisce al volo. Sarà anche che siamo di etnie diverse e questo ti costringe a aprirti di più. Oggi capita a me di avere bisogno, domani a te. Magari una fa la spesa, e io in cambio le tengo i figli. Qualunque cosa: abiti, trucchi… anche se io sono un po’ stile camionista”. Certi giorni avrebbe voglia di partire, andarsene via, in America Latina. “Ma andarmene non sarebbe giusto. Preferisco restare qui con loro e resistere”.