Il racconto e le suggestioni di una proiezione in omaggio a Massimo Troisi per una delle commedie più citate e divertenti di sempre. Con i commenti e i ricordi di una speciale addetta ai lavori
Come forse per altri della mia generazione non ricordo molto di quando lo vidi per la prima volta in sala, Non ci resta che piangere. Dettagli come quale cinema o il periodo più o meno esatto dell’uscita. Ero solo un bambino che iniziava ad appassionarsi ai film. Di sicuro ero con i miei genitori e qualche compagno delle elementari, probabilmente. E mi divertirono da morire quei due giovanotti perduti nel passato tra invenzioni strampalate, gavettoni di pipì e bisticci irresistibili.
Un paio di giorni fa il Flaiano Film Festival ha reso un omaggio semplice e sentito a Massimo Troisi per i vent’anni dalla sua scomparsa. Ma sarei andato a rivederlo con la stessa determinazione anche se lui fosse stato ancora qui, tra i suoi set e il suo pubblico. Trent’anni dall’uscita di un’opera buffa e rivoluzionaria e chissà quanti ripassi televisivi, citazioni tra amici di ogni regione, risate e videocassette trasformate col tempo in filmati YouTube.
Sui titoli di coda ho riscoperto per caso l’ufficio stampa di allora, oggi tra i più importanti del settore e sempre presa dal lancio di grandi block-buster: Cristiana Caimmi. Così ne abbiamo parlato. «Ero giovanissima, agli inizi». Mi ha confessato. «Adesso è chiaro che partecipammo a un film che è rimasto nella storia del cinema italiano, ma allora ricordo che ho sofferto le pene dell’inferno alla proiezione perché la critica non fu così entusiasta». Il pubblico però premiò le fatiche dei due comici imponendoli definitivamente nella nuova Commedia all’Italiana. «Iniziai con Ricomincio da tre. Poi Troisi mi disse: “Prova a fare per me l’ufficio stampa di questo film”. E da allora lavorai con Massimo fino al Postino, e da Non ci resta che piangere in poi anche con Benigni».
Dal comico di una pietra miliare del buon umore, dopo tutto questo tempo esce anche un po’ di nostalgia. Tempi di Ritmo, con la maiuscola o meno, di anni Ottanta insomma. Ma ora dal grande schermo, con gli occhi da adulto, noto sul petto lasciato scoperto dalla blusa del maestro Mario il segno dell’intervento di Houston, e il presagio silenzioso di quell’Oscar senza lui a Hollywood. E chi lo dice che è solo una commedia da box-office e risate a largo raggio? Lo sguardo mi cade poi su una fotografia sontuosa e intima. Giuseppe Rotunno riuscì a ricreare squarci di luce caravaggeschi negli interni. E dal Merisi ci sono composizioni come la Vocazione di S. Matteo nelle scene in macelleria. O la ripresa del Bacco per una nuova iconografia al pinzimonio dei due capicomici nella locanda spagnola. Non soltanto lettere, pinzillacchere e omaggi a Totò e Peppino.
Il contrasto del dramma sul comico è, e sarà sempre una leva, e i due registi ne tennero conto anche nella promozione, come dal ricordo del loro ufficio stampa: «La prima foto inviata all’Ansa li ritraeva in macchina, serissimi e in bianco e nero con il titolo che campeggiava in basso. Sembrerà serioso. Invece no! Bastava questo contrasto impensabile a farti ridere. Loro insieme erano così». La scena del fiorino alla dogana girata tra mille ciak e risate di tutto il set, per esempio, è ormai leggenda. Confermata anche dalle stesse risate dei due attori. Ma c’era anche una coscienza più profonda, autoriale: «Due persone serissime sul lavoro, estremamente colte e soprattutto geniali. Massimo mentre lavoravamo era capace di citare da Sant’Agostino agli Scritti corsari di Pasolini, per poi tornare sulla sceneggiatura. Furono scuola per tutti noi».