Quando chiude una libreria è sempre una sconfitta, anche se non era quella che frequentavi abitualmente, anche se passeggiando scopri per caso una serranda abbassata con un cartello che riassume “perché non ce l’abbiamo fatta” nonostante la mobilitazione di amici, lettori, stampa, cittadini indignati, nonostante le solite promesse disattese dei politici, le bonarie pacche sulle spalle ai dipendenti “tanto non chiuderà”.
In questo caso “Croce” era proprio la mia libreria, quella aperta nel 1945, quella che da sempre è stata luogo di incontro di Pasolini, Moravia, Dacia Maraini, quella che risuonava della presenza poetica di Sandro Penna e Dario Bellezza, quella dove pittori di fama mondiale amavano esporre le loro opere.
Quella dove, dopo essere uscita dal ginnasio, in un sabato assolato di fine ottobre, ho comprato il mio primo Baudelaire con i soldi ricevuti per il compleanno; quello dove ho presentato “Regaliamoci la pace” scritto con Terzani; quello dove mia figlia – nata molti anni dopo ma nello stesso giorno del vecchio direttore – ha sfogliato i suoi primi libri seduta sulla sediolina verde nel reparto dei piccoli, quella dove le ho donato “Leggere a tre anni” sperando che iniziando presto non smettesse mai di appassionarsi alla lettura.
Quella dove il logorroico cassiere lasciava si formasse una lunga fila borbottante, per illustrarmi improbabili assunti filosofici coloriti dalle vicende della famiglia di sei persone che viveva solo grazie al suo lavoro. Quella dove respiravo l’odore delle pagine, trovando sempre il libro necessario al momento giusto.
Il primo scossone creato dal cambio di gestione, la lenta agonia, e l’inesorabile chiusura circa tre anni fa dopo mesi di resistenza. Non era un supermercato di bestseller, ma un luogo umano, dove ci si raccontava, dove il consiglio di un titolo travalicava il confine già ampio di una pagina. Svendita finale, aspettativa di riapertura, voci dall’alto su possibile utilizzo dello spazio, rassicurazioni dal Comune “resterà comunque un luogo dedicato alla cultura”.
A lungo ancora qualche ricordo letterario in vetrina, alla fine l’abbandono e la dimenticanza.
Sì, so bene che in Italia non è lecito stupirsi più di niente, che il sindaco sonnecchia insieme alle altre istituzioni, che il caldo ottenebra la già insignificante reazione di un popolo ormai incapaci di indignarsi. Quindi la mia tristezza nello scattare qualche foto allo spazio dei libri usurpato è inutile e anche un po’ ridicola.
Allora mi appello alla passione del calciatore: “Mettici almeno qualche bel libro che parla di sport nella tua nuova impresa, fai in modo che qualche grande voce continui ad aleggiare nelle imponenti stanze di Corso Vittorio Emanuele”. In fondo Pasolini assimilava il calcio a un vero e proprio linguaggio, e amava ricordare i pomeriggi passati a giocare a pallone come i più belli della sua vita “giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra /…/ Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”.
di Federica Morrone
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