La televisione sta cambiando, lentamente, ma neanche poi tanto. Non solo dal punto di vista dei generi, dello stile, dei linguaggi: del contenuto ‘puro’ insomma. Ma anche da quello dei modelli economici che stanno dietro. E’ anzi proprio da lì che bisogna partire per capire come sarà la televisione di domani; o, almeno, di una fetta importante di televisione. Prendiamo la pubblicità, per esempio. Fino a non molto tempo fa un’azienda per mostrare i suoi prodotti e i suoi servizi sul piccolo schermo poteva fare sostanzialmente due cose: o la cosiddetta tabellare o la sponsorizzazione. Ovvero, o fare un classico spot (la vecchia reclame) inserito prima, dopo e in mezzo ai programmi, o fare un cartello che dice che il programma che segue è “gentilmente offerto” da quell’azienda o da quel prodotto (ricordate il prosciutto Rovagnati?).
Di fatto però in entrambi i casi tra il contenuto televisivo e quello pubblicitario non c’è alcun tipo di rapporto: sono messi semplicemente uno vicino all’altro. Poi, nel 2010, anche nel nostro Paese è stata approvata una direttiva che autorizza il product placement in tv. Questa pratica, in uso nel cinema già da molto tempo, permette di inserire e di mostrare dei prodotti commerciali ‘dentro’ il programma (a determinate condizioni). Per esempio, un presentatore che beve da una bottiglietta d’acqua, di cui viene inquadrata la marca per pochi secondi, o un’auto di una certa casa (anch’essa ben riconoscibile) che porta i concorrenti da un posto all’altro. Se fate attenzione i programmi in cui si fa ricorso a questo giochino sono ormai un’infinità, tanto che ormai non ce ne accorgiamo ormai nemmeno più. Ma la frontiera adesso è un’altra e si chiama branded entertainment.
Col branded entertainment non è più il prodotto commerciale a essere inserito dentro il programma, ma è il programma stesso a essere costruito intorno al prodotto (o ai valori che il prodotto rappresenta). In pratica si fa un programma su misura per una o più aziende, che in questo modo coprono per intero o quasi le spese di produzione. Qualche esempio a caso tra i programmi più recenti, tutti in onda su Sky e/o Cielo (ma non è certo l’unico broadcast a farne uso). Destinazione Sconosciuta, fatto ad hoc per Toyota, L’uomo di casa (per Leroy Merlin), Calzedonia Ocean Girls (per Calzedonia, ovviamente, che in questo caso è voluta entrare sin nel titolo), Top Dj (Campari, Alfa Romeo, Puma, Vigorsol), fino al recentissimo RDS Academy (radio RDS, CheBanca!), che è ancora in onda. E un sacco di altri ancora sparpagliati – per ora- sulle reti cosiddette “minori”.
Ma a chi giova, alla fine, questo branded entertainment? Alle aziende sponsor, in primo luogo: si tratta infatti in genere di un buon investimento, dato che il loro prodotto o il servizio non è solo “appiccicato” al programma, ma ne fa parte integrante e quindi ha una visibilità e una “forza” maggiori; e poi anche alle reti, che si ritrovano dei programmi a costi praticamente pari a zero, con cui rimpolpare i loro scarni palinsesti, che mai come in questo periodo sono in affanno perenne. Tutto considerato è facile dunque prevedere che questa pratica, nel giro di pochissimo tempo, si allargherà a macchia d’olio, anche alle reti generaliste. Postilla conclusiva. E’ banale dirlo ma perché la cosa funzioni, i programmi devono avere anche almeno un minimo di dignità televisiva. RDS Academy, che va in onda il lunedì alla 20,10 su Sky Uno, è per esempio un caso da non imitare. E’ un talent per aspiranti speaker radiofonici, moscio e noioso sotto tutti i punti di vista, con 3 giudici fuori ruolo (lo Zero Assoluto Matteo Maffucci, l’unico un po’ spigliato, Anna Pettinelli, e il comico Giovanni Vernia, che di radio ne sa poco o nulla) e una conduttrice abbastanza inconsistente (Diletta Leotta, ex conduttrice di Skymeteo24). I primi 4 episodi hanno fatto risultati imbarazzanti: 12mila di spettatori di ascolto medio e share da microscopio. Va bene l’aspetto commerciale, ma se il contenuto manca, tutto va a farsi benedire.