Non era, ne sono convinto, mai accaduto prima. O, almeno, non da quando, agli albori del capitalismo, Charles Dickens aveva da par suo provveduto a denunciare gli orrori dello sfruttamento minorile nella tenebrosa Londra vittoriana. Da quegli anni lontani – o, più precisamente, da quando il lavoro dei bambini e degli adolescenti è, nel furore della rivoluzione industriale, diventato un problema etico-politico – nessun governo aveva mai emesso leggi tese, non ad elevare l’età minima lavorativa, come la decenza e l’umana pudicizia suggeriscono, bensì ad abbassarla. Nel caso specifico: da 14 a 12 anni.
Eppure proprio questo è successo. Ed è successo, per colmo di paradosso, proprio in uno dei paesi che della lotta contro gli abusi ed i maltrattamenti ai danni dell’infanzia (l’infanzia più povera e derelitta, quella, per l’appunto, dei bambini che lavorano) ha fatto una delle sue più enfatizzate bandiere. Vale a dire: in quello Stato Multinazionale di Bolivia la cui Costituzione – approvata per referendum nel luglio del 2006 – come poche altre al mondo sottolinea i diritti delle parti più umili, dimenticate o, come nel caso delle etnie pre-colombiane, discriminate, dello spettro sociale.
Come è potuto accadere? Per capirlo occorre tornare allo scorso 17 dicembre, quando, in quel di La Paz, alcune centinaia di bambini ed adolescenti, percorso in corteo il centro della città, cercarono di guadagnare accesso al Palacio Quemado (la sede della presidenza) e vennero piuttosto brutalmente respinti, con manganellate e gas lacrimogeni, dalla polizia. Che cosa chiedevano quei bambini? Chiedevano di poter lavorare. O più esattamente: intendevano protestare contro il nuovo Código de la Niñez y Adolescencia, una legge che – allora già approvata da uno dei due rami del Parlamento Multinazionale – puntava ad approfondire i diritti allo studio ed alla salute di bambini ed adolescenti. Il tutto, ovviamente, confermando a 14 anni – in sintonia con tutte le convenzioni internazionali – l’età minima lavorativa.
Un’assurdità? Un’aberrazione? In parte, certamente. Ma molto meno di quel che d’acchito appare. Quei bambini erano, infatti, parte dei 15.000 minori membri della UNATsBO (Unión de niños y adolescentes trabajadores de Bolivia), un’organizzazione sindacale (e non l’unica in America Latina) che difende i diritti – quello al lavoro incluso – dell’infanzia che lavora. E questo sulla base d’un paio di considerazioni che probabilmente farebbero rivoltare nella tomba il buon Dickens – per non dire di Marx ed Engels –, ma che non pochi giudicano, nel contesto boliviano, tutt’altro che peregrine. E che certo tali (tutt’altro che peregrine) sono state giudicate da Evo Morales, il primo presidente indio del paese, il quale, dopo gli incidenti del 17 dicembre, ha preso decisamente le parti dell’UNATsBO, appoggiando la richiesta di abbassare – come poi di fatto sancito dal nuovo Código – i limiti dell’attività lavorativa.
Una doverosa premessa prima di spiegare in che cosa consistano le ‘considerazioni’ di cui sopra. Stando ad una indagine condotta nel 2008, ci sono in Bolivia poco meno di un milione di bambini lavoratori. E la parte più brutalmente sfruttata di questa manodopera di riserva lavora, in condizioni molto prossime a quelle della schiavitù, nel profondo delle miniere, nelle piantagioni di canna da zucchero o in lavori domestici nelle città. Contro questo tipo di sfruttamento – che ovviamente nessuno appoggia – il governo boliviano ha conseguito, in sintonia con quanto accaduto in quasi tutto il resto dell’America Latina nell’ultimo decennio, rilevanti successi. C’è però un’altra e molto diffusa forma di lavoro infantile – quella che, soprattutto nelle aree rurali, si consuma nell’ambito famigliare – che secondo la UNATsBO ed una parte delle NGO che si occupano del problema sarebbe controproducente combattere con meri criteri proibizionisti (ovvero: proibendo ai bambini di lavorare prima dei 14 anni). E questo fondamentalmente per due ragioni. Pratica la prima e, per così dire, ‘filosofica’ la seconda.
La prima (non dissimile, nella sostanza, da quella usata in favore della legalizzazione della prostituzione) è in sintesi questa: un divieto sancito dalla legge non solo non affronta, in sé, le cause del fenomeno, ma le nasconde e moltiplica. Accettare la realtà del lavoro minorile significa, in effetti, renderlo ‘visibile’ e più facilmente attaccabile con misure adeguate. Ovvio esempio (dalla nuova legge fatto proprio); obbligando le famiglie a mandare a scuola il figlio-lavoratori. La seconda: il lavoro infantile non solo è una necessità per famiglie povere, ma è anche, da sempre, parte di quella ‘cultura comunitaria’ che la Costituzione del 2006 con forza difende e promuove come retaggio di civiltà fino a ieri marginalizzate ed umiliate. In sostanza: il lavoro è in questo caso, per i bambini, non una forma di sfruttamento, ma una forma di educazione, uno strumento di crescita e di partecipazione alla vita della comunità.
Giusto? Sbagliato? La verità sta, probabilmente in qualche parte dello spazio che separa questi due estremi. Molto prossima al giusto per Evo Morales, la UNATsBO e non poche ONG. Molto a ridosso dello sbagliato per la Organizzazione Internazionale del Lavoro, per gran parte delle organizzazioni di difesa dei diritti umani e per tutti coloro che, come il sottoscritto, pensano che il lavoro minorile sia, in tutte le sue espressioni, il primo strumento di riproduzione della povertà.
Di certo c’è questo: l’abbassamento dell’età lavorativa è, in Bolivia, parte – la parte oscura, se vogliamo – d’una idea politica. La stessa idea, affascinante e molto ambiguamente ‘rivoluzionaria’, che ha fatto della Bolivia uno Stato Plurinazionale, formato da diverse etnie le cui culture, legalmente o di fatto, diventano legge. Anche quando significano lavoro minorile o, volendo toccare un altro ed ancor più dolente punto, la pratica del linciaggio. Una storia appena cominciata. E che ancora stenta ad incontrare il suo punto d’equilibrio.